“L'antirazzismo è il nuovo terrore letterario”. Ritorna il reprobo Millet
Vieto perché vietato
Quello che pubblichiamo in questa pagina è uno stralcio de “L’antirazzismo come terrore letterario” (pagg. XL-44, euro 15), libro di Richard Millet in uscita in questi giorni per la casa editrice Liberilibri, con prefazione di Renato Cristin. Millet è scrittore e polemista, critico letterario tra i più noti di Francia, in aprile è stato licenziato dalla prestigiosa casa editrice Gallimard. Contro di lui sono fioriti gli appelli, dopo che in un libro del 2012, “Langue fantôme”, che conteneva un “Elogio letterario di Anders Breivik”, lo stragista era diventato “il sintomo della decadenza dell’occidente”.
Ciò che si chiama letteratura, oggi, e, più estesamente, cultura, non è che la faccia edonistica di un nichilismo di cui l’antirazzismo è il ramo terrorista. Non c’è in Francia più razzismo di quanto ci siano frutti d’oro ai rami degli alberi, e l’ideologia antirazzista ha bisogno di inventarlo per giustificare il terrore permanente che essa esercita su tutti, a partire dagli scrittori, ai quali rimane solo la scelta fra la collaborazione (a cui acconsente la maggioranza, soprattutto gli indignati) e il rifiuto di questo terrore. Opporsi a questa ideologia dominante equivale a indossare un abito d’infamia, oppure di gloria, quando si abbia per tutta la vita riprovato nei razzisti, negli antisemiti, negli anticlericali, nei rigoristi e negli atei la medesima bestialità, il medesimo rifiuto di pensare, il medesimo odio. A costoro bisogna oggi aggiungere gli antirazzisti. In un mondo dai valori interamente rovesciati e in cui la parola vietata di “razza” diventa l’ossessiva metafora della donna, dell’omosessuale, dell’obeso, del “giovane”, dell’animale ecc., gli antirazzisti si dedicano, in nome del Diritto, a ciò in cui si sono distinti i razzisti più violenti: linciaggio mediatico, condanna giudiziaria, distruzione dell’uomo libero. E ciò mi conduce a sostenere che l’antirazzismo contemporaneo non è altro che una manifestazione isterica e al tempo stesso fredda dell’odio degli altri.
Poiché l’accusa di razzismo è oggi la pallottola destinata alla nuca di chi ha a cuore la verità – in confronto a cui il peggior pedofilo beneficerà ancora di un’indulgenza sociopsicologica –, costui è quasi felice d’esserne l’oggetto, per prendere nella propria trappola il discorso dominante di un’epoca in cui la gnosi antirazzista tenta di persuaderci che le razze non esistono, e meno di tutte la razza bianca, colpevole, esclusivamente, di tutti i mali, e prossima a scomparire – punizione e redenzione – nella blanda colorazione del meticciato universale sostenuto dal partito devoto. Almeno, questa accusa diventa una gloria (una gloria invertita, e dunque un’arma che si ritorce come una fiamma contro l’avversario), perché essa, l’accusa, è senza fondamento e votata a uccidere, il che ci ragguaglia, tra l’altro, sul fondello dei pubblici accusatori, che è tanto sporco quanto il loro linguaggio. Io sono infatti di quelli che pensano che lo stato della bocca e del linguaggio non è senza legame con ciò che un tempo si chiamavano le parti vergognose e che il relativismo contemporaneo ha esaltato al rango di bocche come le altre, per mezzo della medesima operazione che rende un sans-papiers un “cittadino” come un altro, un Nero un Bianco, un animale un umano, un bambino un adulto, e un transessuale un individuo di cui non può essere messa in discussione la salute mentale, a condizione che non siamo tutti più o meno folli, bisessuali, “femmine”, zoofili, bestiali, quasi clonati, come se interrogarsi, in questi termini, sui dispositivi post-identitari, fosse etichettabile come discriminazione. In questo ipermercato di doxai definizionali, l’immigrato rimane tuttavia la figura nobile per eccellenza, improbabile ma luminoso germoglio dei massacri di massa che il Ventesimo secolo ha elevato al rango di realizzazione industriale, e incarnazione neokantiana del diritto di visita che la riduzione del pianeta per mezzo del turismo e del numero ha reso più ragguardevole, e che l’innumerevole ha reso perfettamente nocivo, dinanzi alla grande emigrazione dell’uomo verso il suo simulacro genetico.
Viene dunque dichiarato razzista, oggi, colui che contesta non l’eguaglianza delle razze e delle etnie, ma il Nuovo Ordine politico-razziale dispiegato, nei paesi europei, dal capitalismo mondializzato, con la collaborazione attiva del complesso mediatico-culturale, in particolare quello degli scrittori; il che giunge a ratificare una colonizzazione di nuovo ordine: quella del ricco da parte del povero, vale a dire una colonizzazione inversa, il riflusso e il declino storico, la decadenza morale anche, generando questo neocolonialismo di cui l’Europa sta morendo per incapacità di restare se stessa di fronte a un’immigrazione incalcolabile, incompatibile, generalmente ostile e infine distruttiva.
Ricordiamo che con “immigrato” la Propaganda nomina in verità non l’insieme degli immigrati, ma unicamente quelli che vengono da paesi extraeuropei, in particolare musulmani, stabilendo quindi una discriminazione tra le più ipocrite, a eccezione dei Rom, popolo palesemente inassimilabile e di cui gli Stati europei non sanno cosa fare, tranne includerli nelle iperboli del discorso antirazzista, il che finisce con il relegarli in un’erranza semantica che ne farebbe la figura estrema, dunque impossibile, del sans-papiers. Qui si potrebbe prendere in fallo la Propaganda, il cui discorso esclude gli immigrati europei dal suo campo sentimentale e ideologico.
Ci sarebbero dunque immigrati buoni e immigrati cattivi, in quanto l’immigrato europeo non è meritevole di commiserazione, perché Bianco e cristiano, e dunque inesistente rispetto al buon immigrato, l’extraeuropeo, diventato il motivo obbligato del pensiero contemporaneo, il suo ostinato, il suo basso continuo, la sua doxa filosofico-letteraria. Se non è illegittimo andare a cercare rifugio altrove e a prescindere dal fatto che non tutti i paesi siano legati da accordi di estradizione, quest’atteggiamento filosofico trascura la questione del numero e dell’illimitato: il travasamento intercontinentale di popoli molto lontani gli uni dagli altri non ha più nulla di ciò che il discorso immigrazionista chiama una chance; l’immigrazione massiccia e continua che il capitalismo internazionale ha messo in opera, da tre decenni, costituisce, per gli indigeni, ma anche per gli immigrati, un disastro umano che la Propaganda tenta di mascherare sostenendo, per esempio, che più l’immigrato è lontano dalla nostra cultura, se non addirittura ostile a essa, migliore è, per di più “buono” per natura, e che fa anche “tendenza”, “moderno”, e costituisce l’occasione (gli analfabeti americanizzati direbbero l’“opportunità”) per gli indigeni degenerati di diventare insomma, con i loro immigrati, “come” Americani o, in mancanza, Brasiliani – intendendo questa mancanza in quanto perdita identitaria che l’ideologia del “nuovo” giustifica con la fatalità storica del meticciato: non riuscendo più a raccapezzarsi, la Propaganda ingarbuglia le carte, sebbene esse siano uomini, culture, entità, nazioni, e senza riconoscere che i dadi sono tratti e i perdenti sono innumerevoli, e l’umano stesso finisce per perdere.