Com'è hip hop Mr. Hamilton
"Farò un musical hip hop, ho trovato il mio eroe: Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti”. Risatine alla Casa Bianca, la telecamera inquadra Michelle e Barack Obama – lei più divertita di lui, applaude – mentre il giovanotto sul palco non molla il microfono, aspetta che la ridarella si plachi, insiste nel tenere il punto. “Era nato in un’isoletta caraibica, povero e illegittimo. Rimase orfano in giovane età. Divenne il braccio destro di George Washington, tutti gli altri Padri Fondatori lo citano nei loro scritti e discorsi. Riuscì nell’impresa solo con la forza delle parole”.
Accadeva il 12 maggio 2009, al White House Poetry Jam organizzato per accogliere tra le pareti presidenziali suoni diversi dal solito concerto di musica classica. C’era la bassista e cantante jazz Esperanza Spalding: nome mezzo spagnolo, padre nero, origini nel quartiere malfamato di Portland e ricci alla Angela Davis. C’era l’attore James Earl Jones, noto per aver doppiato Darth Vader (e per non aver voluto il suo nome nei titoli di coda, troppi effetti speciali – sonori, ovviamente – per uno abituato alla purezza della voce teatrale). C’erano il premio Pulitzer Michel Chabon e la consorte Ayelet Waldman: i più impacciati, saldamente legati alla scrittura in un’occasione che celebrava la parola parlata e ritmata, dai poetry slam all’hip hop. Tra gli antenati, per entrambi, le “Dirty Dozen”: battaglie verbali perlopiù incentrate sulla virilità dell’avversario e l’onore della di lui mamma. Ralph Waldo Ellison (lo scrittore nero di “Uomo invisibile”, battezzato dalla mamma con i nomi del filosofo e poeta Emerson, da non confondersi con “L’uomo invisibile” della fantascienza, che si deve invece a Herbert G. Wells) le racconta nel romanzo incompiuto “Il giorno della libertà – Junteenth”. “D12” - che appunto sta per Dirty Dozen, era il nome del gruppo da cui è uscito Eminem
Meglio non fare paragoni con quel che non succede da noi, in materia di spettacolo e ministeri. Concentriamoci sul giovanotto che sul palco tracciava l’audace parallelo tra il padre dalla patria Alexander Hamilton e rapper come Tupac Shakur, Notorious B.I.G., Ice Cube e gli altri eroi del film “Straight Outta Compton”, diretto da F. Gary Gray. Altri giovanotti che con la forza delle loro parole erano usciti dai ghetti malfamati per diventare miliardari. L’impavido era Lin-Manuel Miranda, nato negli Stati Uniti da genitori portoricani, correva l’anno 1980. A 28 anni aveva già vinto 4 Tony Award per il musical “In the Heights”, con riferimento al quartiere newyorchese di Washington Heights. La trama non era originalissima – amori e storie di vicinato tra immigrati di origine dominicana, il narratore che tutto osserva dal suo negozietto all’angolo della strada si chiama Usnavi (sta per U. S. Navy, la prima scritta che i genitori videro arrivando a New York). A 29 anni, invitato dal presidente e dalla first lady cantava il brano d’apertura di quel che all’inizio sarà un album intitolato “Hamilton”, poi uno spettacolo off Broadway recensito benissimo, poi uno spettacolo di Broadway recensito ancora meglio, e attualmente lo spettacolo più chiacchierato in scena a New York, premiato con il Pulitzer e candidato a 16 Tony Awards. I biglietti scarseggiano e sono costosissimi. Gli speranzosi tentano di aggirare l’ostacolo con la lotteria organizzata sul sito hamilton.com o mettendosi in fila la sera davanti al Richard Rodgers Theatre per i ticket dell’ultimo minuto, a dieci dollari soltanto. L’attesa è allietata da uno spettacolino, “Ham4Ham”, con ospiti illustri: qualche giorno fa c’era J. J. Abrams.
Lin-Manuel Miranda
Lin-Manuel Miranda – nome di battesimo rubato alla poesia “Nana Roja Para Mi Hijo Lin Manuel”, scritta durante la guerra del Vietnam dal portoricano José Manuel Torres Santiago – aveva allora i capelli corti e l’aria da giovanotto timido ma pieno di entusiasmo, che osa un passo più lungo del dovuto. Tutto studiatissimo. A rivedere il video, i tempi sono perfetti, e quando smette di parlare e comincia a rappare, con il solo accompagnamento di un pianista, vengono fuori un talento e una classe stupefacenti. Anche per lo standard americano, dove lo spettacolo è una cosa seria, per arrivarci si studia e si suda, non basta avere “un’emozione dentro che voglio condividere”. Con una bravura da levare il fiato, il brano in prima assoluta alla Casa Bianca condensava in pochi minuti la vita di Alexander Hamilton. Dopo essere fuggito dall’isoletta di St. Croix, e dopo gli studi a New York, fece abbastanza cose notevoli in politica e in economia per finire immortalato sulla banconota da dieci dollari. Fin qui potrebbe essere la storia solita dell’emigrante che ce l’ha fatta, della New York dove i sogni si avverano, e della scuola come ascensore sociale. Ma provate a rapparlo così: “The ten-dollar Founding Father without a father / Got a lot farther by working a lot harder / By being a lot smarter / By being a self-starter”. (I biglietti non si trovano, ma la magnifica colonna sonora è a portata di clic, su iTunes o Spotify, e i testi sono più facilmente reperibili di un libretto d’opera).
Lin-Manuel Miranda ha adesso i capelli raccolti in uno chignon dal puro stile hipster e il pizzetto. Così acconciato, dopo aver scritto e composto gli altri brani del musical – privo di intervalli recitati, anche la neonata Costituzione va a ritmo di hip hop – sale sul palco ogni sera con la redingote, il gilet e la camicia di Alexander Hamilton. Applaudito come nuovo genio del teatro musicale, sulla scia del geniale Stephen Sondheim a cui dobbiamo “In to the Woods" e “Sweeney Todd”, diventato un film di Tim Burton con Johnny Depp (come paroliere soltanto, ha in curriculum “Gypsy” – su Gypsy Rose Lee, regina del burlesque negli anni Trenta – e “West Side Story”). Attorno a lui, un cast dove di bianchi ci sono solo le donne e re Giorgio III. Lo stesso di “La pazzia di re Giorgio” (dramma di Alan Bennett e film di Nicholas Hytner): il sovrano britannico che non tollerava i riferimenti alla guerra d’indipendenza delle colonie americane. Si stavano facendo gli Stati Uniti, le casse di tè finivano a mare nel porto di Boston, scattò la parola d’ordine “No taxation without representation”. “Hamilton” circoscrive la questione in termini più diretti e moderni: “Britain keeps shittin’ on us endlessly / Essentially, they tax us relentlessly”.
Con il senno di poi, Alexander Hamilton è il perfetto eroe per raccontare in musica la fondazione degli Stati Uniti d’America alle nuove generazioni. Lin-Manuel Miranda con l’intero cast è tornato alla Casa Bianca per un workshop con gli studenti. Michelle Obama lo ha accolto con entusiasmo da groupie, ed è seguito un altro incontro con Obama, per un rap freestyle: il presidente girava cartelli con le parole – giurano di non essersi messi d’accordo prima – e il nostro improvvisava. Mezzo scozzese e mezzo caraibico, sbarcato ragazzino a New York per inseguire quel che ancora non si chiamava “sogno americano” – ma era ben chiaro a tutti gli uomini di buona volontà – Alexander Hamilton fu il protagonista del primo scandalo sessuale nella storia degli Usa. Due anni di corna inflitte alla moglie (l’amante in carica si chiamava Maria Reynolds) con la complicità del marito tradito che era a conoscenza dell’affair, salvo poi passare al ricatto quando l’umore, e la convenienza, cambiò.
Alexander Hamilton (1755-1804)
Gli Stati Uniti non nascono con la solennità che i padri fondatori mostrano nei ritratti del monte Rushmore. Piuttosto, dai litigi dei Padri Fondatori con il francese Lafayette (che canta nel musical con il suo accento) e – dice Lin-Manuel Miranda - “il gay tedesco von Steuben”. Un ufficiale prussiano che rimase senza lavoro e fu presentato da Benjamin Franklin a George Washington, combatté al suo fianco da guerra di indipendenza e scrisse il “Revolutionary War Drill Manual”, principale manuale di addestramento per l’esercito americano fino al 1812. Con il senno di poi, appunto. Con il senno di prima, c’era solo la monumentale biografia di Ron Chernow che Lin-Manuel Miranda aveva deciso di leggere durante una vacanza con l’allora fidanzata (nel frattempo è diventata sua moglie, doveva avere anche lei qualcosa di molto interessante da leggere). Ottocento pagine che per diventare musical hanno richiesto otto anni di fatiche: “Volevo rendere giustizia allo stile di Hamilton e alla sua bravura da oratore”. Ha aiutato il cortocircuito con la vita del compositore, paroliere e interprete: suo padre, nato in Portorico, aveva studiato alla NYU ed era diventato consigliere del sindaco Ed Koch.
Come Tupac Shakur e Notorious B.I.G. – morti sparati a pochi mesi uno dall’altro – Alexander Hamilton ebbe una fine tragica. Fu ucciso in duello da Aaron Burr, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti. Pensateli come un arbitrato, spiega Lin-Manuel Miranda: “Quando due non riuscivano a mettersi d’accordo si davano appuntamento in un praticello deserto, con le armi e un dottore”. All’epoca – era l’11 luglio del 1804 – i duelli erano vietati a New York ma non nel New Jersey, dove i due si presentarono al fatale appuntamento. Hamilton con l’intenzione, pare, di sbagliare mira, nella speranza che il rivale avrebbe fatto lo stesso. “To throw away (the shot)” è il termine tecnico, ripetuto con astuzia e senso del ritornello decine di volte in “Hamilton”. Cambiandogli il significato: “Non sprecherò il mio colpo”, ripete il nostro, deciso a tutto pur di avere successo. L’assassino Aaron Burr ha il suo grande momento già dalla prima scena, quando i personaggi si presentano: “Sono il bastardo che gli ha sparato”. Prima aveva descritto la vittima come “bastard, orphan, son of a whore and a Scotsman”: parole tratte da una descrizione piena di disprezzo che si deve a John Adams, secondo presidente degli Usa (e il primo che prese alloggio alla Casa Bianca).
Tupac Shakur e Notorious BIG forniscono le citazioni musicali. Tante, ma non tutte: un articolo sul New Yorker ripercorre le influenze che arrivano dal musical classico. L’amicizia con Stepehn Sondheim è una lunga storia che comincia a scuola, e continua quando Lin-Manuel Miranda traduce in spagnolo il libretto di “West Side Story”. I sapienti si dilettano controllando la fedeltà alle vicende storiche, per esempio sul duello fatale. Non sono tutti d’accordo su chi sparò per primo – Ron Chernow pensa sia stato Hamilton, ma che le sue intenzioni di duellare senza spargimento di sangue, evidenti dalle lettere, non fossero chiare al rivale. L’America di ieri raccontata all’America di oggi. Non vale solo per il cast multicolore. Vale per “Hey yo, I’m just like my country / I’m young, scrappy and hungry”, che richiama “stay hungry stay foolish” detto da Steve Jobs con l’aggiunta di “scrappy” che sta per “sconnesso”, e non si poteva dire altro dei nascenti Stati Uniti d’America.
“Parla poco, sorridi molto, non far sapere da che parte stai” sono i consigli degli amici che Alexander Hamilton puntualmente disattende. Come puntualmente disattesi sono stati i consigli ricevuti da Lin-Manuel Miranda. Oggi si gode un successo che non si registrava da quando nel 1990 Tony Kushner – lo sceneggiatore scelto da Steven Spielberg per “Lincoln” - scrisse “Angels in America – Fantasia gay su temi nazionali”. All’inizio lo prendevano per matto: nessuno vuole andare a teatro per sentire tre ore di hip hop, il musical su Tupac Shakur aveva chiuso dopo sei settimane. Andò avanti, “Les misérables”, il musical di Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil. Aveva visto lo spettacolo per la prima volta quando aveva sette anni, un po’ pianse e un po’ dormicchiò. L’incanto gli suggerì – anche se ancora non era in grado di dirlo con parole sue – che un commediografo, un raccontatore di storie, un musicista hanno una sola responsabilità: far trascorrere a chi paga il biglietto “il momento più bello della sua vita”. Se non proprio il più bello, qualcosa come “Hamilton”, che ci va vicino.