Padri
Domande oblique per scoprire la temperatura emotiva della figlia
Cara Annalena, approfitto del “Figlio” per sfogare la mia frustrazione di padre che anela vanamente a un dialogo franco e schietto con una figlia che pure ha superato ormai da anni le sue turbe adolescenziali. Se a mia figlia infatti domandassi semplicemente: come stai? come risposta ne riceverei, ben che mi vada, un insopportato “uffa”, ma più di frequente un umiliante “vaffanculo”. Perciò, per indagare sul benessere spirituale di mia figlia oramai adulta e indipendente, ho deciso di aggirare l’ostacolo frontale e di chiederle subdolamente: hai forse chiamato il vivaio che da mesi dovrebbe aver già portato piante e vasi per la tua amata e invidiabile terrazza? ma lei risponde sempre: “No”. Secco, perentorio, ma non infastidito, e tanto meno umiliante. Mi accontento. Vado per gradi. Sto infatti diventando un esperto dell’indagine obliqua. Misuro la temperatura emotiva di mia figlia con domande apparentemente innocue, ma in realtà sempre orientate a un secondo fine.
Come tratta la sua casa? Se con cura, amore, partecipazione, meticolosità, allora mia figlia sta bene, e dunque che bisogno c’è più di chiederle “come stai”. Se con trascuratezza, sciatteria, disamore, superficialità, allora scatta l’allarme. Solo che l’allarme non produce soccorsi all’altezza. E infatti uno dei problemi del padre che non può chiedere direttamente: come stai?, è che si sente inadeguato e inetto se poi le risposte indirette segnalano uno stato di malessere. Ma l’indagine prosegue, scaltra e insinuante, anche se dall’altra parte si erge indistruttibile e ostinato il muro del no. Hai chiamato l’elettricista per aggiustare quei fili pericolosissimi sulla parete che se li tocca un bambino sono guai? No, e poi a casa mia non circolano bambini. Hai fatto venire quello della copertura della doccia che altrimenti si allaga il bagno tutte le volte? No. E hai comprato le tende per la finestra del secondo bagno che senza, poi, si diventa veramente un bello spettacolo per quelli che abitano di fronte? No. E hai finalmente appeso quei quadri che stanno da mesi accatastati nella stanza degli ospiti? No. Qualche volta la domanda obliqua si trasferisce dalla casa al mezzo di locomozione: hai fatto lavare quella macchina che è veramente lercia e fa schifo solo ad entrarci? No. No, no, sempre no.
Le domande oblique sulla manutenzione ordinaria e straordinaria della casa e dell’automobile dovrebbero rappresentare un credibile test sulla condizione psicologica e spirituale di mia figlia adulta e indipendente, in realtà è come se il termometro fosse rotto e indicasse sempre la stessa temperatura: no, no, no, 37 e 4, 37 e 4, 37 e 4. Qualche volta va anche peggio. Come quando su WhatsApp vedi la doppia spunta celeste sulla tua domanda: “E’ arrivato l’olio della Maremma, ne vuoi una lattina?”, ma la domanda così affettuosa non riceverà mai alcuna risposta. E allora, perché insistere? Perché, per evitare la rispostaccia ineducata al più diretto e banale “come stai?”, ci si ostina con domande insidiosamente intrusive, falsamente pratiche ma in realtà cariche di sottintesi morali, per riceverne in cambio solo una sequenza di dinieghi, un elenco di monosillabi tutti invariabilmente sospinti verso il no? Per tre ragioni. Perché il cuore ha delle ragioni che la Ragione non può capire. Perché la speranza è sempre accesa, fino alla disillusione finale. E soprattutto perché “a futura memoria”.
Perché non si possa mai dire: tu te ne sei sempre fregato, non hai capito, o forse non ha voluto capire per egoismo e insensibilità, che dietro la mancata chiamata dell’elettricista soffriva un cuore giovane con un padre menefreghista, e che dietro i vasi non ritirati dal vivaio si celava una richiesta d’aiuto inascoltato. Ecco perché insisto: perché si serbi di me un ricordo di padre premuroso e attento, anche a costo di apparire petulante e noioso. Però io vorrei lo stesso che mai figlia mi dicesse come si sente, se si sente infelice o appagata, se i suoi ventiquattro anni sono pieni di promesse oppure afflitti da troppe paure e che la telefonata non fatta a quello delle tende non dipende dalla pigrizia bensì da uno spleen paralizzante. E allora continuo. Però penso anche che se qualcuno mi avesse chiesto, a ventiquattro anni: come diavolo fai a vivere nel devastante casino in cui hai ridotto la casa in cui abiti? l’avrei considerato un inguaribile rompicoglioni. E infatti, non chiederò più niente, non domanderò a mia figlia come mai non ha esitato a chiamare quello del wi-fi e quello dell’abbonamento Sky ma non quello della copertura della doccia. A futura memoria apparirò come quello che non fa domande inopportune e oblique. Che non insiste su dettagli secondari come la frequenza del cambio delle lenzuola in casa di mia figlia. Me le tengo per me, orgogliosamente. E mi tengo per me pure un continuo “come stai, figlia mia”, tanto io, da solo, affanculo non mi ci mando.