Ma perché tantissimi tifano per la Nazionale e pochissimi per la nazione?
Ma perché in tantissimi tifano per la Nazionale e in pochissimi per la nazione? Me lo sono chiesto pedalando sugli spalti della Cittadella durante la partita contro la Spagna. La pista era semideserta quando di norma è affollata, troppo affollata per i miei gusti rarefatti. Pochi ciclisti e pochi corridori e fra questi la percentuale di donne era molto superiore al solito, dettaglio che mi ha recato un certo conforto: la differenza sessuale esiste ancora! E non è vero che tutte le donne vanno pazze per i calciatori! Peggio dunque per quei poveretti davanti alla televisione, ho pensato: davanti ai loro occhi ci sono maschi in braghette, davanti ai miei, invece, femmine in calzoncini aderenti, spesso con lunghi capelli ondeggianti sulle spalle…
Ma perché in pochissimi tifano per la nazione e in tantissimi per la Nazionale? Com’è possibile che i due sentimenti siano ormai tanto slegati? Eppure senza la prima non esisterebbe la seconda. Di sport ne so ben poco ma se esistesse una nazionale del Lombardo-Veneto o del Monferrato o dell’Esarcato credo che da qualche parte ne avrei letto. Se ancora oggi esiste una Nazionale italiana di calcio è segno che molti italiani credono che ancora oggi esista una nazione italiana perfettamente costituita. Credono o fingono di credere, non mi è del tutto chiaro, ma certo l’ignoranza della storia aiuta. Per gioire appieno delle vittorie di Antonio Conte è utile non sapere o non ricordare nulla dell’Otto Settembre, del Venticinque Aprile, della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, del Trattato di Maastricht e della conseguente abolizione della lira, insomma del precipitare della sovranità nazionale dal 1943 a oggi. Così come per sventolare il tricolore è importante non conoscere la sua genesi: venne imposto alla fine del Settecento dagli invasori francesi e quindi accolto con entusiasmo dai collaborazionisti del tempo (a Reggio Emilia ancora se ne vantano, di quell’antico servilismo, e il Consiglio comunale si riunisce nella Sala del Tricolore così chiamata perché lì vi applaudirono per la prima volta, o col maggior fracasso, il bianco-rosso-verde).
Io pedalavo al fresco sotto gli alberi della Cittadella, ogni tanto sentivo dei boati, delle grida provenienti dalle finestre dei palazzi circostanti, e immaginavo reti e rigori, e quasi invidiavo quei miei connazionali soddisfatti di applaudire un surrogato. “La gente comune vive di fedeltà” scrive Roger Scruton, filosofo per l’appunto inglese, per l’appunto pro Brexit, “e se viene privata del senso di nazione cercherà altrove i legami di appartenenza: nella religione, nella razza o nella tribù”. I miei connazionali non credono in nulla, dicono weekend, dicono shopping, la domenica vanno al mare o nei centri commerciali e quindi nella religione non si possono rifugiare. Sono anche alla moda e perciò aborrono l’idea di razza, fondamentalmente ottocentesca. E per quanto in via di africanizzazione sono ancora abbastanza europei da non concepirsi divisi in tribù. Rimane loro il pallone: l’appartenenza perduta la ritrovano nello sport, impegno parziale per caratteri vacanzieri. Renan definì la nazione “plebiscito di tutti i giorni” mentre quello calcistico è un plebiscito biennale (se ho capito bene la cadenza dei campionati europei e mondiali), infinitamente meno faticoso e anche meno costoso, giusto la spesa di qualche birra che verrà scolata davanti alla televisione fra lazzi e rutti. Chi se ne frega se nessuno più controlla i confini, che di una nazione sono l’esoscheletro, e se ogni giorno sbarcano sulle coste centinaia o migliaia di maomettani prontamente rifocillati a spese del contribuente invaso? Chiellini e Pellè hanno segnato.