Hopper, una luminosa solitudine
La luce e la solitudine come tratti distintivi, due elementi che pochi, come lui, sono riusciti a rappresentare così bene sulla tela o su altre superfici, permettendo così a quella scintilla sensoriale, la prima, di far ricordare cose viste e dimenticate fino a fare emergere la seconda, quella condizione umana da lui stesso provata per quasi tutta la sua esistenza. Edward Hopper (1882-1968) amava mescolare l’una all’altra fino a far venir fuori, nei suoi dipinti come nei suoi disegni, nei suoi acquerelli come nelle sue incisioni, una visione della vita (americana, ma non solo) sfuggente quanto frammentaria, con scene capaci di evocare nello spettatore ricordi e spunti volti a immaginare altre storie, senza però mai offrirne una lettura definitiva. Le sue figure – siano esse delle donne in attesa davanti a una porta o a una finestra, o dei personaggi con uno sguardo rivolto verso l’orizzonte – sono sospese in un tempo dove ad avere la meglio è l’immobilità insieme al vuoto, al silenzio e a quella incapacità di dare il giusto valore al quotidiano. Sono lì, simboleggiano il disagio di vivere ed è come se volessero essere altrove: quando non sono loro a farla da protagoniste, ci pensano gli oggetti e gli altri elementi, poco importa se siano una pompa di benzina, una stanza con un letto ancora da rifare, una casa, un faro, un bar o un ponte ancora da attraversare.
Al pittore che è considerato la quintessenza dell’artista americano e che è stato un attento osservatore di luoghi oltre che cantore di atmosfere, è dedicata la grande retrospettiva in corso a Bologna (fino al 24 luglio). Da quando è stata inaugurata, la mostra continua a far registrare ogni giorno migliaia di visitatori. Tutti in fila all’ingresso di Palazzo Fava che la ospita, senza protestare nonostante il caldo, tutti lì per poter ammirare da vicino, anche solo per pochi minuti, alcuni dei capolavori di quel gran narratore di storie che nel corso della sua esistenza, dagli inizi del secolo scorso agli anni Sessanta, ha messo in scena nelle sue opere ogni motivo o genere possibile di pittura figurativa (ritratto, paesaggio, nudo, scena d’interno), a eccezione della natura morta. Le opere presenti sono cinquantotto in totale e provengono tutte dal Whitney Museum di New York, che nella sua nuova sede al Meatpacking District, con splendide vetrate che danno sui giardini pensili della High Line e sull’Hudson, è custode – tra le altre cose – di oltre tremila opere di Hopper ricevute in eredità dalla moglie Josephine, che lui e gli amici più cari chiamavano semplicemente Jo. Dal museo newyorchese proviene anche la curatrice di questa mostra visitabile fino al 24 luglio prossimo, Barbara Haskell, che in collaborazione con Luca Beatrice è riuscita a dar vita a un percorso espositivo suddiviso in sei sezioni tematiche e allo stesso tempo cronologiche: si va dalla formazione accademica agli anni di studio a Parigi, quando il pittore entrò in contatto con il movimento impressionista, fino ai capolavori degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, per poi arrivare alle intense immagini dell’ultimo periodo.
Una volta dentro, raggiunto il piano nobile del palazzo che ha già ospitato mostre di successo (quella dedicata a “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer in primis), alzate gli occhi al cielo dove spiccano gli affreschi realizzati da Ludovico, Agostino e Annibale Carracci che qui ebbero l’occasione di dare il primo grande saggio della propria arte. Con il loro ciclo di Giasone e Medea (“il primo nudo moderno della storia dell’arte”), infatti, raggiunsero risultati altissimi per naturalismo anti-accademico e maturità pittorica, rappresentando più azioni all’interno dello stesso riquadro. Ad accogliervi, una volta entrati nella prima stanza, troverete un autoritratto in cui un Hopper poco più che ventenne (il dipinto è del 1903) vi fissa con i suoi occhi color ceruleo che risaltano ancora di più su quello sfondo scuro. Alto più di un metro e novanta e dalla forte presenza fisica, l’artista era famoso per la sua reticenza, tanto da scrivere e parlare pochissimo del suo lavoro. “Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere”, era la sua poetica e alla folla preferiva sempre quella solitaria tranquillità che solo il suo studio newyorchese a Washington Square sapeva dargli. Nonostante tutto, dopo un periodo buio, raggiunse il meritato successo, tanto che negli anni la rivista Look lo considerò “uno dei migliori pittori americani” e Time gli dedicò addirittura la copertina nel 1956.
Dopo aver lasciato la sua Nyack, nello Stato di New York, Hopper andò a vivere nella Grande Mela per frequentare un corso d’illustrazione alla New York School of Art e per dedicarsi alla pittura, dove ebbe, tra gli insegnanti, William Merritt Chase, esponente dell’impressionismo americano. Qualche anno più tardi, nel 1906, raggiunse l’Europa ed è a Parigi che decise di passare più tempo, in quella città che all’inizio criticava, perché “troppo formale e dolce dopo il crudo disordine newyorchese”, ma dalla quale, poi, cominciò a essere dipendente, perché – come spiega Sasha Nicholas nel testo del catalogo della mostra edito da Skira – “tutto era armonioso e assolutamente pulito”. La mostra inizia proprio da lì, con quadri che ripropongono il periodo in cui Hopper abitava in un piccolo studiò in rue de Lille, sulla Rive Gauche, raffigurato in più di una sua tela. Da quella che era la sua “base operativa”, ogni giorno partiva alla scoperta della Ville Lumière, modernizzata e resa maestosa dal barone Haussmann con i grandi boulevard affollati e trafficati, che però Hopper, a differenza di molti impressionisti, non rappresentò mai. Preferì i cortili, le ferrovie, i parchi (a Bologna, troverete il suggestivo quadro con il Parc Saint-Cloud), le abitazioni, il lungosenna con i suoi inconfondibili bateaux-mouche e monumenti celebri come il Louvre, la Conciergerie e Notre-Dame, oltre ai ponti, come il Pont Royal e il Pont-des-Arts. “I parigini – diceva lo stesso Hopper – hanno qualcosa in più: sembra che vivano nei caffè o per strada, in quelle vie animate dal mattino alla sera. Non è come a New York dove c’è quella continua fissazione per il denaro. Qui c’è una folla gaudente a cui non importa cosa fare o dove andare, pur di divertirsi”. Gli fu dunque impossibile, poi, dimenticare Parigi, e dei dieci mesi trascorsi in quella città unica portò per sempre il ricordo dentro di sé. Sono del 1909 il Quai des Grands Augustins, Le Bistro e Le Pavillon de Flore, che disegnò a memoria negli Stati Uniti, dove era nel frattempo tornato, come se fosse ancora lì, a passeggiare sotto un ponte o seduto in uno dei tanti caffè. La luce parigina, con i suoi contrasti fra chiaro e scuro, fra ombre cupe e sole accecante, è presente ovunque e lo sarà anche nei quadri della maturità. In quegli oli, spiega sempre Nicholas, “abbandonò i colori vivaci per tonalità più morbide e cominciò a comporre scene dai piani geometrici uniformi” e mentre passava dalle tecniche impressioniste ai colori e alla pennellata che avrebbero contraddistinto le opere successive, “il suo uso della luce per scolpire forme solide si faceva più sicuro e raffinato”.
E’ del 1914 quello che all’epoca era il suo olio più grande, Soir Bleu, uno dei “protagonisti” di questa mostra, al centro di una stanza tutta sua, simbolo di un dramma sessuale in cui una prostituta eccessivamente truccata sfila nella terrazza di un caffè cercando di adescare gli uomini seduti ai tavoli. Sulla sinistra, indifferente e con le mani conserte, separato dal resto del gruppo, c’è il suo maquereau, il suo protettore, che fuma una sigaretta. Poco distante, c’è un uomo barbuto con un basco, archetipo dell’artista bohémien (probabilmente è il suo maestro, Edouard Manet), seguito da un soldato seduto di spalle e da un pagliaccio meditabondo e vestito di bianco (per molti critici, si tratta dell’artista che volle così rappresentare la sua malinconia esistenziale), guardati a distanza da una coppia elegante in abito da sera. “Soir bleu deve essere stato per Hopper un quadro rivelatore e liberatorio, il suo esorcismo”, fa notare giustamente Nicholas, perché attraverso anni di contemplazione e concentrazione, egli giunse poi a un’interessante via di mezzo fra meticolosa osservazione e fantasia, tra implicito racconto e momento frammentario ed ermetico, tra un’umana solitudine e quella “ebbrezza della luce del sole”, come lui stesso la definì. Purtroppo il dipinto, esposto nel 1915 al Mac-Dowell Club di New York, non venne capito dai critici dell’epoca (“troppo europeo e vecchio come stile”) e Hopper stesso decise di riprenderselo e di non mostrarlo mai più, tanto che sarà riscoperto, nel suo studio, solo dopo la sua morte, quando venne donato al Whitney Museum.
“Hopper è stato un pittore tradizionale senza essere tradizionalista”, ci ha spiegato Luca Beatrice. “Ha fatto l'apprendistato a Parigi, ma poi è tornato a New York divenendo il primo artista autenticamente americano”. Con lui ebbe inizio la pittura americana (fino a quel momento gli Stati Uniti vivevano l’arte quasi esclusivamente come fenomeno di importazione dall’Europa) e con lui iniziò un capovolgimento dei valori propri del Nuovo continente, che valorizzava l’uomo solo in misura del suo successo e delle sue capacità, ignorando il suo mondo interiore, i desideri più autentici e l’idea di felicità. “Nelle sue tele, Hopper mise in discussione il sogno americano, ma nel rivelare la disillusione, indicò la strada per una rinascita, per la conquista di una esistenza più consapevole”.
Un’influenza enorme, dunque, quella hopperiana, su molti degli artisti venuti dopo e che superò decisamente i confini della sola arte figurativa andando a toccare anche la fotografia, la letteratura e il cinema. In tanti film, infatti, ritroviamo una sua presenza, da La finestra sul cortile (1954) a Psyco (1960) di Hitchcock (la casa dove abita Norman Bates con la madre è un chiaro omaggio alla hopperiana House by Railroad del 1925) a Il grande sonno di Hawks (1946), Un tram che si chiama desiderio (1951) di Kazan, Il gigante (1956) di Stevens, Il lungo addio (1973) di Altman fino a I giorni del cielo (1978) di Malick, senza dimenticare il “nostro” Michelangelo Antonioni che rese omaggio al suo famoso dipinto Gas (1940) nel Grido, diciassette anni dopo.
Nel percorso bolognese, troverete anche alcuni disegni, che sono l’aspetto meno studiato di tutta l’opera di Hopper (questo dipese anche da lui, che non li considerava una grande forma di espressione artistica) e diversi fogli su cui l’artista aveva annotato le idee per realizzare quelli che poi sarebbero divenuti i suoi quadri più conosciuti e in cui è evidente quella sua capacità di presentare le evocazioni astratte e atmosferiche del tempo, del luogo e della memoria. Prima di andare via, lasciatevi conquistare dal mistero di New York interior (1921) e dalla bellezza di una donna annoiata vestita di rosso in South Carolina Morning (1957), passate il maggior tempo possibile all’ultimo piano, dove concluderete il piacevole percorso ammirando Second Story Sunlight (Secondo piano al sole) del 1960, uno dei suoi oli più conosciuti e amati. Se lo vorrete, potrete “entrare” nel dipinto nel vero senso del termine, grazie ad un effetto speciale allestito nella stanza accanto. In quel momento, diventerete testimoni attivi della sua tecnica elegante, proverete un brivido in più e sarete al centro di quel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana” che caratterizzò la sua opera.