Padri
Una stanza d'ospedale, una figlia che piange
Dal momento in cui ti dicono che tua figlia di pochi mesi deve essere ricoverata d’urgenza ti dici: No, non a lei, non a me. Guardi tua moglie che la tiene mentre le entrano nelle piccole braccia con aghi che sembrano enormi e ti sforzi di sembrare forte, un argine alla preoccupazione, sperando di non dover essere la spalla su cui piangere. Non ce ne sarà il motivo, passerà tutto. Poi tua moglie prende tua figlia, la stringe forte e diventano della stessa sostanza. Un padre il proprio dolore lo capisce in ritardo perché non sa come si fa. Un padre è abituato a essere una figura d’amore in supplenza, non ha generato, non ha partorito, i figli li vede al mattino e alla sera, ha quasi paura dell’intimità assoluta di questi esseri piccoli e bisognosi.
Il reparto è moderno e colorato, le infermiere sono donne, i medici uomini e donne, i medici importanti uomini. I padri arrivano al mattino, in affanno, vanno subito nelle camere, poi quasi sempre scappano e non ci sono durante le visite, per cui alla sera, quando tornano non sanno cosa è successo, glielo raccontano. Come a casa. Le madri si avvicinano alle infermiere ora timorate, ora categoriche, cercando di lavorarle ai fianchi, perché sono consapevoli che avranno bisogno del loro aiuto, di informazioni, flebo, pannolini, latte alle tre del mattino. Un padre dice: mio figlio ha male all’orecchio. Mi serve il latte. Mio figlio sanguina, piange, si lamenta, io vi denuncio, venite. Poi torna e guarda questo figlio malato sopportando, soffrendo, ma un padre non sa come si fa perché in fondo non si sente autorizzato a essere l’amore primario. Nutrire, accudire, passare del tempo vuoto insieme. In fondo al suo cuore vorrebbe chiamare una nonna, una tata, vorrebbe essere altrove.
A sera ho alzato lo sguardo e mi sono reso conto che intorno a me c’erano solo padri. Le madri si erano dissolte, forse a fumarsi una sigaretta, o a spiare da dietro le porte. O a casa, per qualche ora. I padri stavano buttati sui divanetti, si trascinavano senza meta in corridoio, chini sui cellulari, con i figli malati a fianco. Un cinese, un peruviano, tre italiani, un arabo. Ognuno a controllare chi era messo peggio, a gioire o incupirsi con lo sguardo ferito o a esultare in fondo al cuore in caso di vittoria. Come al campetto da calcio. Non ci siamo detti una parola, non ci siamo mossi, quasi pregavamo che i nostri figli non si mettessero a piangere per non dover interagire. Quando i figli piangono i padri non sanno cosa fare e non fanno niente. Li toccano timidamente, chiedono cos’hai cos’hai ma vorrebbero solo che al loro posto ci fosse la moglie, la fidanzata, la madre.
Quella sera le infermiere passavano veloci ma era chiaro che si accorgevano di noi, di questi uomini soli, in penombra, fermi ad aspettare che i figli guarissero, e ci ammiravano. Le madri è normale che siano in ospedale, che si aggirino in pigiama come fossero a casa, che dormano lì, sedute, sfatte, vicino ai lettini con le lenzuola verdi e le barre di protezione.
I padri no, i padri, i padri non sanno come si fa. Il loro alfabeto dei sentimenti è sghembo, ristretto, incerto. Sono maschi, abituati a essere figli maschi, i sentimenti li imbarazzano senza la mamma nei paraggi. Ma quella sera, tra tutti quei padri sospesi nell’involontaria parentesi della malattia, mi sono chiesto se non staremmo meglio se avessimo il coraggio dirci cosa proviamo, se il diventare padri sentimentali non ci renderebbe il dolore più accettabile, la stanchezza meno solitaria, la paura meno spaventosa, l’amore più intimo. Se quella sera avessimo avuto il coraggio di dire cosa sentivamo, forse saremmo diventati padri più consapevoli. Il mattino seguente ho detto a mia moglie che la notte in ospedale con la piccola ci avrei dormito io. Lei ha risposto: la notte è niente, è di giorno che ci devi stare, è il giorno che è dura. Ma io lavoro!, ho pensato. Ma ho taciuto, perché la strada del padre sentimentale è lunga e perigliosa.
La compagna di stanza di mia figlia è una bimba cinese di nome Maria. La madre Carla, il padre Lorenzo. L’unica a parlare un po’ di italiano è Carla, Maria ha due anni e il padre è gentile e comunica a sorrisi. Quando Maria piange lui le dice qualcosa in cinese e la guarda, poi si rimette al cellulare, le parla ancora dolcemente, cerca di darle ordini, ma la implora. Maria continua a piangere e finisce lì con lei che piange e noi che cerchiamo di corromperla con giochi, cibo, qualsiasi cosa. Maria è stata punta da qualcosa e ha il volto tumefatto e gonfio, un occhio chiuso. Non sorride mai. La sera arriva la mamma con l’aria di chi ha lavorato tanto e l’atmosfera nella stanza si distende, Maria smette di piangere, Lorenzo va a farsi un giro, una passeggiata. E’ sollevato. Ha dimostrato di essere un buon padre, ha fatto ciò che doveva. Io lo capisco perché le telefonate di lavoro mi dicono che sono anche da un’altra parte, mentre qui i padri servono ma sono le madri che portano a casa il risultato, le madri non hanno rete di sicurezza. Forse è questo il punto: le madri non possono chiedere aiuto per i figli. I padri sentimentali dovrebbero iniziare a pensarsi così, padri senza rete, e vedere come va a finire.
Michele Rossi è responsabile Narrativa italiana Rizzoli