Una scena tratta dal promo di "Mr. Robot"

La politica è una cosa serie

Tutto ciò che manca a Mr. Robot per essere una serie imperdibile

Massimiliano Trovato

La serie tv creata da Sam Esmail è una torta con ingredienti sceltissimi e una cottura impeccabile, ma a cui manca il lievito. L'obiettivo è quello d’illustrare compiutamente, attraverso la dinamica tecnologica, una precisa visione della società: il desiderio è quello di abbattere il potere, ma alla fine riesce a prendersela solo con le carte di credito.

Salutata da pubblico e critica come una delle più stimolanti novità televisive del 2015, “Mr. Robot” è una torta con ingredienti sceltissimi e una cottura impeccabile, ma a cui manca il lievito. C’è una rappresentazione sorprendentemente sottile del disagio psichico e delle dipendenze. C’è un’ammirevole attenzione al dettaglio informatico, che ha fatto gridare al miracolo il partito degli smanettoni. C’è un ritratto fedele e aggiornato del tipo sociologico al timone di ogni rivolgimento, il giovane maschio incazzato. C’è un’indagine molto sfumata sul reale, affidata a un narratore inaffidabile per costruzione: una ricerca dal vago sentore post-moderno perfezionata da un altro prodotto recente, “The Affair”, con quella caleidoscopica storia di corna. Aggiungeteci l’algida Joanna, la valchiria da cui tutti vorremmo essere ammanettati al radiatore e imbavagliati con una ball gag.

 

L’impostazione ideologica della narrazione, però, gira a vuoto: e non solo perché Fsociety, il gruppo di hacker attorno al quale gira la vicenda, pare espiantato da una campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani. Il cattivo della storia è E-Corp, ubiquo agglomerato industriale dai riferimenti illustri: un po’ Microsoft, un po’ Google, un po’ JP Morgan – ma il logo ricalca quello di Enron, e certe scene traspirano persino un’inquietante estetica hitleriana. Il pretesto che cuce la traiettoria dell’azienda a quella dei protagonisti è l’immancabile scandalo ambientale impunito, ma a farne un obiettivo sensibile è il ruolo ch’essa ricopre nel sistema bancario mondiale.

 

 

Per E-Corp – anzi, per «Evil Corp» – lavora anche Elliot Alderson, la guida riluttante del colorato manipolo d’incursori telematici. Esperto di sicurezza informatica talentuoso quanto fragile, Elliot ha un amico immaginario (lo spettatore), volteggia con binario rigore tra morfina e Suboxone, viola le vite virtuali di chi ama (per garantirne l’incolumità emotiva) e di chi disprezza (per retribuirne i misfatti). Diventa hacker per necessità, più che per vocazione: è l’unico codice che conosce per relazionarsi alle persone che lo circondano. Quando il suo malinteso istinto di protezione fermenta sino ad abbracciare l’umanità intera, tuttavia, quello stesso codice gli appare lo strumento ideale per affrancarla.

 

Dal potere? No: dal denaro, dal debito, “dall’un per cento dell’un per cento”. Non inganni il richiamo nostalgico al “gold standard”, chimera bagnata di una consistente frangia libertaria. Le fruste tirate anticapitalistiche di «Mr. Robot» non lasciano spazio a interpretazioni: se siamo manipolati attraverso il cibo che trangugiamo, le reti di comunicazione che pascoliamo, i medicinali che assumiamo, la pubblicità che ci sorbiamo, allora il pianeta dev’essere sottratto alla mano invisibile “che ci marchia con un tesserino” e “ci controlla senza che ce ne accorgiamo”.

 

Nemmeno quando il piano – cancellare la memoria di milioni di transazioni finanziarie – giunge a compimento, Elliot afferra che il debito è semplicemente la fotografia in negativo del credito e che per far svanire i mutui occorre sacrificare anche i depositi. Soprattutto, neanche quando la catastrofe apre la strada alle soluzioni d’emergenza dei governi, Elliot riconosce che la presunta emancipazione ha mancato l’obiettivo. La pretesa di parlare di libertà senza mai inquadrare la politica fa di “Mr. Robot” un coito interrotto: il racconto mette a fuoco le relazioni sociali con una certa credibilità, ma senza mai giungere a illuminare il fulcro su cui si reggono. In questo modo finisce per testimoniare la genesi di una rivoluzione senza che s’intraveda alcun potere da soppiantare.

 

Se parlassimo di una serie sul ruolo della tecnologia, questa debolezza sarebbe forse scusabile. Ma l’ambizione di “Mr. Robot” è quella d’illustrare compiutamente, attraverso la dinamica tecnologica, una precisa visione della società – la sceneggiatura, anzi, evidenzia scrupolosamente come ogni intrusione informatica sveli l’impotenza dell’uomo, più ancora che l’imperizia dello specialista. Il problema è che si tratta di una visione parziale e fallace. In questo senso, le numerose assonanze con incidenti d’attualità – dall’attacco a Ashley Madison a quello a Sony, fino all’omicidio in diretta avvenuto in Virginia, che ha consigliato lo slittamento del finale della prima stagione – denotano capacità descrittive fuori dal comune, ma non bastano a provare capacità analitiche altrettanto rimarchevoli.

 

 

Lo showrunner Sam Esmail – d’origine egiziana come l’allucinato protagonista Rami Malek – ha spesso individuato nella “primavera araba” la fondamentale ispirazione di questo suo lavoro. E però il risultato ricorda più i pittoreschi campeggi di Occupy Wall Street. “Perché lo fai?”, gli chiedono. “Per salvare il mondo”, risponde Elliot. Intenzione commendevole, ma occorrerebbe prima capirlo.

Di più su questi argomenti: