Il Figlio
Come si tradiscono le madri, come si distruggono gli armadi
Ho iniziato a tradire mia madre quando ero piccola: andavo in prima elementare e incontravo le madri dei miei compagni, immaginavo di andare a casa con loro, immaginavo che fossero loro mia madre. Mia madre era molto giovane e molto bella, forse la madre di cui si poteva andare più fieri all’uscita da scuola, e certe volte veniva a prendermi addirittura in motorino, con i jeans scoloriti e le magliette americane: io avevo sette anni e lei trentadue, ne dimostrava venticinque, appena c’era un po’ di sole era già abbronzata, il sorriso le illuminava la faccia e nessuno faceva battute belle come le sue, io non le capivo sempre ma vedevo che ridevano tutti. Non conoscevo moltissime parole, molte sfumature, e allora la parola che mi veniva in mente quando guardavo mia madre era solo: moderna. Una madre moderna di cui andare fieri all’uscita da scuola. Ma non mi bastava, la stavo già tradendo.
Con le madri che facevano bene le torte e preparavano le pizzette e il tè con i pasticcini il sabato pomeriggio, con le madri che lavoravano anche il pomeriggio e quindi affidavano le figlie a una baby sitter giovane e distratta, con le madri molto vecchie (probabilmente quarantadue anni) che quindi, essendo così vecchie (quarantadue anni, forse quarantuno), lasciavano immaginare una grande saggezza e mai nessuna punizione. Le madri che desideravo con maggiore intensità, però, erano le madri separate. Perché qualche anno dopo, ero andata a fare i compiti a casa di una mia compagna di classe, un po’ lontano da casa mia, e in un salotto con lo stenditoio carico di magliette e di camici bianchi c’era, seduta a terra a piedi nudi, una madre bionda con i capelli bagnati appoggiati al termosifone e una sigaretta in bocca. “Così si asciugano più in fretta”, mi aveva detto strizzandomi l’occhio. Io ero rimasta incantata: una madre che asciuga i capelli strofinandoli su un termosifone, con noncuranza, senza l’idea di un compito da portare a termine. Avevo chiesto alla mia amica: ma anche tu ti asciughi i capelli così? (a casa nostra mia madre mi asciugava i capelli per ore, perché non ne rimanesse nemmeno uno umido. I capelli umidi erano, nella nostra famiglia, la strada certa per la polmonite, e comunque anche con i capelli asciuttissimi, praticamente carbonizzati, bisognava aspettare almeno due ore prima di uscire di casa, perché i capelli si stabilizzassero e il collo non risentisse dello choc termico).
La mia compagna, scorgendo già l’invidia nei miei occhi, mi aveva dato la risposta che non ho più dimenticato: “Sì. La sera dopo cena ci appoggiamo lì con i capelli bagnati e ci diciamo le parolacce”. Davvero le parolacce? “Sì, io le dico stronza e lei mi dice deficiente”. Era meraviglioso, lo volevo anch’io. Una madre appoggiata al termosifone che dice le parolacce. Ero pronta al cambiamento, sognavo di avere molte altre madri, altre vite, altre case con i termosifoni. Sognavo anche una madre che avesse troppe cose a cui pensare per badare a me. Oppure nessuna cosa a cui pensare, e che dedicasse l’intera sua esistenza alla mia felicità. Non mi bastavano il tradimento, il cambio di prospettiva, il sogno dei capelli bagnati fradici d’inverno come gesto di libertà (adesso asciugo i capelli a mia figlia con il phon anche d’estate al mare), volevo la dedizione assoluta.
Perché una madre è tutto: è l’ostacolo, il trampolino e lo specchio. Tutto insieme, in una sola persona che diventa il primo mezzo, il più carnale, il più diretto, per conoscere il mondo e per farci a pugni. Per metterci grandi speranze, ma soprattutto aspettative, soprattutto pretese (“Ma perché le figlie hanno tante aspettative verso le madri? Chi le autorizza?”, ho letto in un libro, e mi preparo a dirlo a mia figlia tra poco: chi ti autorizza?). Quindi anche grandi delusioni e pianti. Fare a pugni con mia madre per prepararmi a fare a pugni con il mondo. Una volta per la rabbia ho sbattuto una cintura sull’armadio di legno chiaro in cameria mia, e la fibbia della cintura ha rotto il legno, ci ha fatto un buco. Era rabbia perché mia madre non mi lasciava partire per la Spagna, o qualcosa di simile. Rabbia verso di me che non avevo il coraggio di andarci lo stesso. Perché la vita non poteva essere semplice e piena di “sì” e di tradimenti bene accolti, senza buchi sull’armadio? Perché io ero l’ultima della terra, chiusa in camera di domenica ad ascoltare “Buona domenica” di Venditti, ma senza nemmeno la consolazione di un’immedesimazione totale? In quella canzone funzionava quasi tutto: tua sorella parla parla, il telefono non squilla, piangere sui libri, ma non potevo in nessun modo applicare il verso: “Tanto tua madre non capisce, continua a dirti ‘Ma non esci mai? Perché non provi a divertirti?’”.
Mia madre mai in tutta la vita, nemmeno quando sono stata due mesi in casa dopo una polmonite (forse presa per capelli asciugati male), mi ha detto: “Ma non esci mai?”. Fin da quando ero piccola diceva che mi lanciavo nei pozzi pur di uscire e che se qualcuno me l’avesse chiesto sarei andata ovunque, “anche in fondo a un pozzo”: adesso ogni volta che faccio tardi la sera o parto ho la visione di me che prendo la rincorsa a occhi chiusi e mi lancio in un pozzo, ma non è mai un pozzo qualunque, è proprio il pozzo che una mia compagna di scuola aveva in giardino (andavo da lei il sabato pomeriggio e mia madre diceva: attenta al pozzo, non ti ci buttare. Anche se da cento anni era chiuso da una grata di ferro cementata. Era una battuta, io non la capivo). Insomma io, bersaglio di tutta l’ingiustizia del mondo, ho rotto l’armadio con una cinghiata e non ho mai ammesso di averlo fatto.
Mamma, sono passati almeno venticinque anni, adesso ho il coraggio di dirti che a fare un buco nell’anta dell’armadio non è stata la signora delle pulizie, cleptomane e alcolizzata, quella con la figlia cleptomane ma non alcolizzata: ho dato la colpa a lei perché mi sembrava più facile, anche se abominevole, ma sapevo che a una donna cleptomane e alcolizzata, quindi già piena di problemi, non avresti mai detto nulla. Comunque adesso quell’armadio grande e è stato smontato e spedito in Marocco, nella casa della moglie del muratore a cui l’hai regalato. E’ stato rimontato, un po’ storto, nella stanza delle bambine, quasi adolescenti: ti hanno mandato la foto dal Marocco e me l’hai mostrata. Si vede ancora bene, e mi ha provocato un brivido di fierezza, l’impronta della mia profonda, centralissima cinghiata. Spero che a quelle bambine porterà fortuna, e spero che tradiranno spesso la madre, ma riempiendola comunque di aspettative. Una madre che fingerà di non accorgersi, poi, di quando le figlie prenderanno la rincorsa, chiuderanno gli occhi e andranno felici a buttarsi nei pozzi. Cieche, ma in volo.