Il sogno di Springsteen tra realtà e bugia. Che cosa aspettarsi dallo storico concerto di stasera a Roma
Per amare e capire Bruce Springsteen devi viverlo. Devi fare esperienza della sua musica, del suo pensiero, del suo essere on stage. Il Boss, come non vuol essere chiamato (ma in fondo, chi lo conosce bene, sa che gode a essere soprannominato così) va guardato anche nelle sue pose, nei piccoli gesti. Su Springsteen è stato detto tutto. Una sua canzone è divenuta anche un fumetto (Edizioni Mondadori) illustrato da Frank Caruso. Andrea Monda ne ha fatto un sussidio per l’insegnamento in classe (Edizione EMI) approfondendone il pensiero, la musica, la vita privata, le origini, gli amici. Poi Peter Ames Carlin quattro anni fa ha scritto una delle più belle biografie, l’unica autorizzata, con la presenza di Springsteen in pochissimi passaggi. Potremmo chiudere qui e invece proviamo a ragionare su questo The River Tour. L’ ennesimo giro del mondo che tocca l’Italia con due date a San Siro (3 e 5 luglio) e una, storica, al Circo Massimo a Roma (il 16 luglio).
Cosa ci si aspetta dal Boss? Sicuramente il desiderio e l’ardore. Dal primo disco, Greetings from Asbury Park, N. J., dove un giovincello si lanciava tra ritmi folk e citazioni di Van Morrison, all’ultimo High Hopes (con la chitarra graffiante di Tom Morello), desiderio e ardore non sono mai venuti meno. Assisti ai suoi concerti e ti perdi in una passione umana incontrollata, quella dei personaggi cantati nei suoi testi: sono tanti, ma alla fine è uno solo, Springsteen stesso. Vivi un uomo appassionato che dà tutto. Le quattro ore di concerto non sono un vezzo puramente statistico o una scommessa fisica, sono la dimostrazione di un artista che vive per quello che fa.
Springsteen è anche il cantore dell’inaspettato, del sorprendente. L’ amore che accade come il dolore, i pensieri che ti prendono, a volte ti attanagliano (come la sua depressione), il desiderio di realizzarsi. “All men must make their way come independence day” . Tutto questo succede d’improvviso nelle sue canzoni quindi nella vita. E questo imprevisto genera sempre una novità che ti mette in cammino su una strada che può essere quella giusta, sotto il sole, come canta in Born to run; sbagliata, buia, come in The river. O quella della solitudine come in Streets of Philadelphia. Giusta o sbagliata si vedrà poi, intanto sei sulla strada. E’ proprio in The River, la canzone che dà il nome all’omonimo doppio album, Springsteen, come ricorda il giornalista Andrew Mueller, canta di “lavoro, donne e che cazzo ci facciamo qui”.
Trentasei anni dopo la pubblicazione di questo disco, riparte oggi da quest’ultima domanda. A sessantasette anni, con tanti colleghi passati dall’altra parte del fiume (solo in questo 2016, Bowie, Prince, Keith Emerson) Bruce ripropone in giro per il mondo un tour e un album personalissimo, intimo, che forse, meglio di tutti i suoi lavori, indica che cosa gli sta a cuore: il cuore. “I would rather feel the hurt inside, yes I would darlin', than know the emptiness your heart must hide. Yes I would darlin', yes I would darlin'.Yes I would baby”. Dopo le posizioni contro il nucleare, il dramma dell’11 settembre, decenni di lotte politiche contro Bush e a favore di Obama , le ultime cadute politically correct dei bagni gender - free, il Boss ci dice ancora: “Il sogno che non diventa reale è una bugia o ancora peggio”. Lui di sogni ne ha cantati e vissuti tanti. Ma ha vissuto anche tante bugie. Lo dice con il rock. “E’ una musica con cui divertirsi, ballare, scopare, spassarsela…. ma anche poter fare discorsi molto seri”. Allora si può ascoltare o riascoltare l’album The River scorgendo una traccia comune nelle quattro canzoni che aprono ciascun “lato”: lacci che legano il cuore, cuori affamati, colpi che trafiggono il cuore o cuori che vibrano. Il nuovo tour promette tutto questo.