Il terrore del Terrore
Il jihadismo prolifera grazie a proselitismo rapido, che deriva da un’ideologia rozza e ridotta all’osso e dallo straordinario impatto mediatico degli attentati, e anche grazie a un mondo non abituato alla morte violenta. Allora, il miglior strumento per gestire l’islam in Europa è riuscire ad avere un “islam europeo”.
Storditi dal fragore incessante dei continui attentati jihadisti, o simil-jihadisti, o di gente che a Daesh si ispira, o di semplici mezzi matti, fatichiamo a comprendere cosa realmente stia succedendo intorno a noi. In Europa come nel resto del mondo, anche se quando ammazzano in Asia, in medio oriente o – peggio – in Africa siamo molto più svagati. E non aiuta la tracimazione di analisti, esperti o presunti esperti che popolano il “Circo Barnum” dell’informazione.
Particolarmente moleste, due categorie opposte ma tutto sommato simili: gli islamofobi e gli islamofili. Che reificano l’islam e le violenze in una rappresentazione fissa e monocorde, sia pur dicotomica, che elimina ogni complessità. Al contrario – per quanto in tempo di social media suoni bestemmia – la complessità non può essere risolta a semplici slogan.
E da qui occorre allora partire. Il terrorismo jihadista, soprattutto quello di Daesh, ha compiuto un’evidente “inversione delle priorità”: ossia antepone la lotta contro il nemico vicino rispetto a quella contro il nemico lontano. In altre parole, l’obiettivo primario del califfo e delle sue milizie è ammazzare altri musulmani, possibilmente sciiti o di correnti minoritarie considerate eterodosse. Da questo punto di vista è una gemmazione settaria del grande scontro geopolitico fra monarchie arabe del Golfo, Turchia e Iran in corso da anni per il predominio nel medio oriente. Come ben dimostrano le stragi continue, pressoché quotidiane, all’interno del mondo islamico. Tuttavia, per nascondere questa realtà e per fare proseliti, Daesh ha sempre usato l’arma del terrore contro l’occidente quale strumento mediatico-pubblicitario, riuscendo a divenire il “premium brand” del jihadismo mondiale.
Tattica vincente, che permette oggi di sviare l’attenzione dalla crisi militare del Califfato rafforzando gli attacchi in occidente (o nel resto del mondo). Ma soprattutto il successo di Daesh sta nella sua capacità di proselitismo rapido, che deriva da un’ideologia rozza e ridotta all’osso, e dallo straordinario impatto mediatico degli attentati. Con un duplice effetto, da un lato lo scatenarsi del processo di mimesi, ossia di imitazione anche da parte di singoli non legati alle cellule jihadiste; dall’altro, il crescere in occidente del terrore del Terrore. Con gli effetti che vediamo in Europa.
E’ altresì evidente che il terrore jihadista abbia a che fare con l’islam e in particolare con l’islam sunnita. E’ assurdo il volerlo negare. Ne rappresenta un’interpretazione aberrante, ma che ha potuto proliferare grazie all’ambiguità di scuole di pensiero e di paesi islamici (primo fra tutti l’Arabia Saudita) e che i rappresentanti dell’islam ufficiale oggi condannano senza riuscire a sminuirne la popolarità. Al fondo vi è la grande questione, comune a tutte le grandi religioni, del rapporto fra violenza e sacro. A fatica, e con un processo durato secoli, in occidente si è eliminata ogni giustificazione dottrinale della violenza in nome di Dio. L’islam non vi è ancora riuscito. Ma l’unica strada per evitare l’uso della religione quale giustificazione delle violenze è riuscire a recidere questo legame. Finché si considererà legittimo uccidere l’apostata, vi sarà sempre il fanatico che adotterà un’interpretazione estensiva e paranoica di quel concetto.
Ma altrettanto evidente è che la demonizzazione dell’islam in sé, delle moschee e delle comunità islamiche non è la risposta. L’islam fa parte – piaccia o non piaccia – della realtà europea. E lo sarà sempre di più. Allora, è fondamentale lavorare per far sì che queste comunità divengano parte della soluzione e non siano solo additate come il problema. Il miglior strumento per gestire l’islam in Europa è riuscire ad avere un “islam europeo”. Come insegnano i programmi di deradicalizzazione e controradicalizzazione già avviati da anni in pochi paesi europei. Una scommessa che possiamo anche perdere ma che va giocata.
Vi è infine il problema del terrore del Terrore, che amplifica il successo di questi attentati. In Europa ci siamo di fatto disabituati alla morte violenta. A differenza di quanto avveniva in passato o di quanto avviene ancora oggi in gran parte del mondo, ove guerra, attentati e uccisioni sono una realtà ben nota. Ogni vita umana perduta è un dramma e una sconfitta. Soprattutto quando avviene casualmente per mano di uno sconosciuto. Ma l’orgia mediatica del mostrare i morti e l’ossessione del Terrore non ci aiutano a prendere scelte razionali e a scegliere le contromisure più opportune. Sapendo ora di non poter più coltivare l’illusione del vivere in un’isola fatta di pace, regole e astrusi codicilli burocratici, mentre il mondo attorno a noi è squassato da guerre e violenze.
L'autore è professore ordinario di Geopolitica e di Storia e istituzioni dell'Asia presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell'Università Cattolica del S. Cuore di Milano