Padri
Essere popolari a Roma nord, e poi un giorno rispondere: “Scialla” a un papà in incognito
L’universo adolescenziale si divide in due categorie: una grande massa indistinta, dove sono inseriti tutti, compresi quelli che anche nelle crudeltà adolescenziali vengono definiti “gli sfigati”, e una ristretta casta privilegiata, agognata e imitata: appunto, i popolari. Se diventi popolare hai svoltato, se vieni riconosciuto come popolare hai vinto la prima battaglia della vita.
Scrivo queste righe di nascosto, al riparo dagli occhi inquisitori di mia figlia adolescente e di sua madre, mia moglie, che è più di una complice, è una fiancheggiatrice. Lo faccio, consapevole del rischio di isolamento familiare che corro. Ecco, dunque: abitiamo a Roma nord. Che, come ormai è stato già raccontato, è un confine geografico fittizio ma socialmente autodefinito. Facile accorgersi di essere entrati in questo territorio supponente: basta guardare la pettinatura delle teenager raggruppate sui giardinetti delle piazze che di volta in volta vincono la palma di luogo di aggregazione del momento. Come piazza Ledro, nascosta tra corso Trieste e piazza Istria, che in più di 50 anni di romanità assoluta io non avevo mai sentito nominare, finché non divenne l’ombelico del mondo di mia figlia per alcuni mesi e poi senza un perchè finì abbandonata come il cortile dei nonni. I capelli delle adolescenti: rigorosamente lisci, spazzolati fino all’ossessione, tagliati poco sotto la spalla. Il che rende assolutamente impossibile riconoscere la propria bambina ormai cresciuta se non la si guarda dritta in volto, perché occhi, naso, bocca, restano i soli elementi caratterizzanti: tutte più o meno lo stesso fisico, tutte vestite nello stesso modo, neanche fosse la divisa di un regime totalitario.
Proprio parlando dei loro vestiti ho scoperto, due anni fa, un mondo: il mondo dei popolari. Erano scese in quattro sulla banchina di Lipari da un caicco sgangherato con cui ondeggiavamo quell’estate con amici per le Eolie, e io che arrancavo dietro di loro alla ricerca di un tabaccaio le osservai come un entomologo che incappa in uno strano esemplare di cavalletta. I capelli di ordinanza, una casacchetta sblusata, una specie di sottoveste cortissima a mo’ di calzoncini con finale in pizzo, zatteroni neri a metà tra gli anfibi della Royal Force e le calzature ortopediche: avanzavano così, a incerte falcate sul molo. Presi coraggio e chiesi che diavolo di abbigliamento condiviso fosse e chi dettasse i princìpi di quella moda bizzarra. “Ci si veste così”, asserirono infastidite (sono sempre infastidite) ma di fronte alla mia insistenza la più dialogante delle quattro si voltò impercettibilmente e disse: “E’ come si vestono le popolari”. Le popolari? Di che cosa parlava? Indagai con discrezione. L’universo adolescenziale si divide in due categorie: una grande massa indistinta, dove sono inseriti tutti, compresi quelli che anche nelle crudeltà adolescenziali vengono definiti “gli sfigati”, e una ristretta casta privilegiata, agognata e imitata: appunto, i popolari.
Se diventi popolare hai svoltato, se vieni riconosciuto come popolare hai vinto la prima battaglia della vita. Ma per diventare popolari non basta essere più belli e più simpatici, come è sempre stata impostata la selezione nella giungla dei brufoli e delle inquietudini della pubertà: occorre indispensabilmente un’altra dote, quella di conoscere molte persone e da molte persone essere conosciuti. Una fama non priva di accenti etici (la ragazzina troppo disinvolta o il ragazzetto troppo prepotente non accedono a questo Olimpo reputazionale), ma basata su un concetto più quantitativo che qualitativo. I popolari sanciscono le mode, scelgono i posti dove è giusto radunarsi, gli altri seguono e ambiscono un giorno a diventare popolari a loro volta. I maschi popolari si riuniscono in club virtuali monogenere e a numero chiuso dai nomi sinistri che sembrano recuperati senza coscienza ideologica da turbolenti passati politici, le femmine popolari fanno selfie con la bocca a cuoricino su WhatsApp, rispondono a affannati consigli di abbigliamento su Ask, formano piccole bande solidali.
Un evento, noi avremmo detto una festa in discoteca, funziona se benedetto dai popolari: diventa “greve”, come dicono nella neo lingua romanesca giovanile con cui sbiascicano. Quel giorno a Lipari, mentre cercavo di capire da quelle quattro meravigliose piccole donne chi fossero questi benedetti popolari, ne incontrammo una. Una vera popolare di Roma nord, in carne e ossa, scesa da qualche barca in quel ferragosto eoliano. Non era più carina di loro, affatto, né sembrava più simpatica. Anzi, si atteggiava a star indolente e scambiò due battute con una certa sufficienza. Loro sembravano emozionate e capii come quel dannato groviglio fondativo della nostra crescita che è la disperata e favolosa adolescenza restasse anche per loro il Capo Horn da aggirare nella tempesta. “Bah, siete molto più belle voi”, dissi quando la popolare si allontanò. Mi guardarono poco convinte.
Confesso che da allora ho sempre sperato che anche mia figlia riuscisse a diventare popolare, nonostante la faccenda contenga così tanti elementi detestabili, ma non c’è nulla al mondo che desideri di più della felicità dei miei ragazzi. In realtà credo ce l’abbia fatta. Ma quando tanto tempo dopo, in uno scampolo di complicità, sono riuscito a domandarglielo direttamente, lei mi ha risposto con indifferenza: “Scialla”. E ho capito allora che era riuscita a fare qualcosa in più, era riuscita intanto a crescere. Nonostante Roma nord.
Andrea Vianello è giornalista Rai
Universalismo individualistico