La fatica di dire a Venezia che i film sono fatti per essere visti (da tutti)
Alberto Barbera vuole colmare la trincea tra sublime cinema d’arte e filmacci che incassano. Lo dice come se la trincea non l’avesse scavata lui, con altri direttori di Festival e di Mostre cinematografiche. Gli stessi che celebrano nelle retrospettive film che non si sarebbero degnati di accettare in concorso, venti o trent’anni prima (quest’anno comunque a Venezia il problema non si pone, non essendoci retrospettiva ma solo qualche vecchio film restaurato).
Per la prima volta nella storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (così fu battezzata, nel 1932) si accenna a un cinema che condivide “la più o meno sotterranea intenzione di rivolgersi a un pubblico più vasto possibile”. Ma che fatica, e che contorcimenti: proprio non riescono a dire “registi rispettosi del pubblico pagante” (lo aveva anche Shakespeare, e “Don Chisciotte” fu un best-seller con tanto di edizioni pirata, per parlare di due geni riconosciuti al loro apparire, mica tutti sono incompresi).
Va da sé che i campioni su questo terreno sono gli americani, che infatti dominano il concorso. Qui la trincea da colmare – ed è perfino più difficile – è tra gli Usa e i tre italiani. L’unico che può riuscirci (giudichiamo dal trailer, e dal suo bellissimo film “I primi della lista”) si chiama Roan Johnson, nato e cresciuto a Pisa. Un po’ sembra “Juno”: la ragazzina incinta, il “ti rovinerai la vita”, un adulto descritto come “l’unico italiano che si sia fatto lasciare da una rumena”.
Meno speranze – è sempre stato dalla parte sbagliata della trincea – ha Giuseppe Piccioni con “Questi giorni”. Giudichiamo sempre dal trailer e dai film precedenti, come “Luce dei miei occhi” che lanciò Sandra Ceccarelli: per un anno non si parlò che di lei, e non era neppure tanto brava. Potrebbe sparigliare “Spira Mirabilis” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Due che erano partiti benissimo, con documentari pieni di energia, e ora si sono dati alla contemplazione. Prendendo esempio, Dio ne scampi, da Terence Malick e dalla sue sinfonie per immagini. Per chi ama il maestro, c’è anche l’originale: un documentario sul cosmo intitolato “Voyage of Time” (Cate Blanchett si presta come voce narrante).
Buone intenzioni, subito smentite dalla quasi nuova sezione “Cinema nel giardino” (“quasi” perché c’era anche l’anno scorso, a ingresso libero, e ora che il buco con l’amianto è stato coperto dopo anni, si sposta in centro). Lì s’è trovato spazio per “Robinù”, scritto e diretto da Michele Santoro. Credevate fosse sparito? Ebbene no, lavorava a “un intenso documentario” che si profila come l’anti-Gomorra e promette “baby boss con i denti marci per la droga” (“la dura realtà, mica i fighi che si vedono nelle serie tv” scriveranno i devoti santoriani).
Smaltite le dichiarazioni di principio e la sezione “en plein air” che accoglie anche l’ultimo film di Daniel Muccino, la mostra sarà aperta da “La La Land” di Damien Chazelle, musical diretto dal regista di “Whiplash” (ovvero il batterista con le mani sanguinanti). E’ finito nella sezione Orizzonti il secondo film di Rama Burshtein, dopo il bellissimo “La sposa promessa”. “Through the Wall” ha per protagonista un’altra sposa, anche questa ebrea ortodossa. C’è un western olandese intitolato “Brimstone” e il secondo film di Tom Ford, “Nocturnal Animals” (dal bellissimo romanzo “Tony e Susan” di Austin Wright, Adelphi). Evento speciale, anzi specialissimo, due episodi di “The Young Pope”, la serie di Paolo Sorrentino con Jude Law, nella fiction il primo Papa yankee in Vaticano.