"Le parole sono importanti", urlava Nanni Moretti in Palombella rossa, film del 1989

Perché l'italiano è una lingua sempre più povera e politicamente corretta

Antonio Gurrado
Il libro di Patrizia Valduga e il nostro lessico malmesso. Nelle pagine degli scrittori, si sta diffondendo uno pseudo-italiano che ricalca lingue straniere facendole convergere verso una piatta semplificazione. Dalle parole quest’epidemia s’è espansa ai concetti, l’espressione dei pensieri e quindi i pensieri stessi.

Ahi, serva Italia che t’impoverisci! Tanto per cominciare, buona parte dei nostri scrittori usa un computer con la mela sopra senza sospettare che “apple” derivi dal nostro “appiola”, in onore di Appio Claudio o forse (come spiega il “Panlessico italiano” di Marco Bognolo, Venezia, 1839) dal greco “apion”, che però significa “pera”: l’appiola unisce infatti il colore verde di quest’ultima a quello rubicondo tipico della mela, generando il francese “pomme d’api”. Il nuovo libro di Patrizia Valduga – “Italiani, imparate l’italiano!”, Edizioni d’if – è una sassaiola contro questo “atteggiamento da colonizzati” che ci riduce non solo a ignorare, e quindi a disconoscere, tale primazia della nostra lingua sulle straniere, bensì addirittura a ricorrere a termini inglesi per definire altri termini inglesi nei dizionari italiani. Il Sinonimi e Contrari della Garzanti, ad esempio, ha riportato per un quarto di secolo non solo “soggiorno” come sinonimo di “sitting room” ma anche “team” come sinonimo di “staff”. Questo degli “insensati solecismi”, che ci portano a parlare un “italiano incerto, povero, brutto, basso, barbaro e bislacco”, è un tema su cui la Valduga batte da vent’anni, per quanto inutilmente; il titolo stesso del volume è un endecasillabo tratto da “Corsia degli incurabili”, componimento del 1996 che oggi si può leggere nella raccolta Einaudi “Prima Antologia”.

 

Qui la Valduga rimava impietosa contro chi aveva in programma “soltanto di ammazzare l’italiano, / di dire in ogni frase una scemenza / con lo iènchi filmesco sottomano”; scriveva a Scalfaro “Signor Presidente della Repubblica, / io non l’ho avuta la legge Bacchelli, / né mai una recensione su Repubblica, / mentre altri che non valgono niente, / amici loro, simili e fratelli / oho! citati quotidianamente”; lamentava “Oddio, mi sta salendo la pressione… / E’ che per me è una tale sofferenza / questo linguaggio da televisione”. Vent’anni dopo, tutto è peggiorato; e questo nuovo libro è un campionario  di battaglie perse. A un popolo di amanti vanagloriosi ma approssimativi non c’è verso di far capire che “in lingua italiana quella parte del corpo femminile si chiama fica, con la c”, mentre con la g è una voce dialettale “e tanto vale allora dire fregna o mona”. Nelle pagine degli scrittori, nota inoltre, si sta diffondendo epidemicamente il linguaggio dei traduttori, uno pseudo-italiano che ricalca lingue straniere facendole convergere verso una piatta semplificazione.

 

Dalle parole quest’epidemia s’è espansa ai concetti, cambiando il modo in cui gli italiani modellano l’espressione dei pensieri e quindi i pensieri stessi. “Una volta”, scrive, “la lingua era crudele con le infermità umane: c’erano orbi e loschi, sordi e sordastri, mutoli, monchi, cionchi, zoppi e arrancati e sciancati. Ma una volta era l’anima a contare; e con il corpo che Dio, o il destino, o la natura ci aveva dato, si giocava senza barare. Oggi che è  il  corpo a contare, e le infermità terrorizzano, ci sono solo espressioni rispettose, litotiche o neutre”. Nel nostro smorto italiano ipocrita nessuno più è sciancato ma siamo tutti depressi, perché in quest’ultimo concetto sono precipitate uniformandosi le varie sfumature di “dispiacere, dolore, demoralizzazione, sconforto, insoddisfazione, scoraggiamento, sfiducia, avvilimento, svogliatezza, cupezza, tristezza, mestizia” e così via con altre tre righe di sinonimi irrimediabilmente perduti dal nostro animo.

 

E’ un inaridimento cui corrisponde una limitazione della conoscenza del mondo: che ci stupiamo a fare dei famosi fatti di Colonia, ad esempio, se abbiamo dimenticato che “verso la fine del ’500 saracinare valeva sodomizzare”, che “turco” vale “barbaro, fiero, cattivo” secondo Tommaseo, che per Carducci “ottentotto” è “persona ignorante, rozza”, che per Landolfi “marocchinare” significa “stuprare” e che nel “Vocabolario nomenclatore” di Palmiro Premoli (Milano, 1909), “croato” era sinonimo di “ignorante”? Il lessico scassato e scempio che è rimasto nei nostri vocabolari quotidiani testimonia, deduce la Valduga, che “ogni impoverimento linguistico è anche impoverimento psichico”. Aggiungiamo anche umano, culturale, politico, e altre tre righe di sinonimi per cui non c’è spazio qui.