Se il Festival di Locarno si apre con un bel film di fantascienza è una notizia
Fantascienza intelligente. Non capita tanto spesso. Tanto intelligente che alla proiezione stampa i critici radunati in cerca di film geograficamente corretti ridacchiavano (non c’è nessun bisogno di invocare una futura retrospettiva, per contrappasso: tra qualche giorno saranno a omaggiare George Romero, regista di horror movie come “La maschera della morte rossa”). Diretto dallo scozzese Colm McCarthy – forte di un curriculum tv che comprende “I Tudors” e “Sherlock” – “The Girl with All the Gift” ha aperto ieri sera il Festival di Locarno. Gli ingredienti sono familiari, combinati però in maniera originale. Molto si deve a M. R. Carey che ha scritto il romanzo, tradotto da Newton Compton, con il titolo “La ragazza che sapeva troppo” (Carey è anche fumettista, per esempio di “Lucifer”, e allora si fa chiamare Mike). Il titolo originale allude al mito di Pandora, che scoperchiò il vaso contenente i mali del mondo (sul fondo rimase solo la speranza).
L’umanità viene attaccata da un fungo che trasforma gli uomini in zombie affamati. La dottoressa Glenn Close cerca il vaccino. La maestra Gemma Aterton (era la controfigura moderna di Madame Bovary in “Gemma Bovery” di Anne Fontaine, faceva perdere la testa a Fabrice Luchini) insegna a ragazzini legati con robuste cinghie, vengono riportati in cella quando la lezione è finita. Sono piccoli zombie di seconda generazione, con un po’ di cervello ancora funzionante. La ragazzina Melanie ha più cervello e voglia di imparare degli altri, da qui la storia comincia. Astenersi, per favore, commentatori che già hanno pronto il discorso sull’accettazione del diverso e gli immigrati che premono alle porte dell’Europa. Siamo dalle parti di Londra – non una parola su Brexit, però – e lo svolgimento è diverso (colpi di scena e niente tempi morti, ai festival è rarissimo).
L’altro film della giornata – “Un Juif pour l’exemple”, diretto da Jacob Berger – era bruttino, parlando di cinema c’era poco da salvare. Agghiacciante è la storia raccontata. E un bel personaggio lo scrittore che la tirò fuori dagli archivi, tra lo sdegno dei suoi concittadini, minacce di morte, un carro carnevalesco che lo metteva alla berlina, scrivendone il nome con le svastiche. Nel 2009 Jacques Chessex – romanziere, poeta e pittore svizzero nato a Payerne nel Cantone di Vaud – pubblicò “Un ebreo come esempio” (in italiano da Fazi). Raccontò l’omicidio e lo squartamento (i pezzi furono messi nei bidoni del latte e gettati nel lago di Neuchâtel) del mercante di bestiame Arthur Bloch, il 16 aprile del 1942. All’epoca dei fatti Jacques Chessex aveva otto anni e fu testimone dell’orrore. Il meccanico del paese, un bulletto che vantava la stessa corporatura di Adolf Hitler, decise di ammazzare un ebreo per educarne tanti. Le fabbriche chiudevano, a qualcuno bisognava pure dare la colpa (e il meccanico sperava nell’invasione della Svizzera, in tal caso sarebbe diventato il capo della sezione locale del partito). Si salva solo la prima scena del film: lo scrittore, per un collegamento radiofonico malfunzionante, sente i critici che sparlano di lui. Tutto vero, come la morte assurda.
Jacques Chessex stava presentando il libro dello scandalo, gli scappò detta qualche parola in difesa di Roman Polanski, che era stato arrestato a Zurigo pochi giorni prima. Si accalorò, rispondendo a uno del pubblico che lo insultava – qualificandosi come “medico e padre di famiglia” – e poco dopo fu colto dal malore fatale. Il medico intanto se n’era andato, in sala non ce n’era un altro.