Artificiosa ed eccessiva, l'epopea hip-hop di "The Get Down" è un capolavaro. Ma anche no
Un'ora e mezza di musica, di rime, di inseguimenti, di salti spettacolari, di tetti, di mattoni che cadono, di case che vanno a fuoco, di vinili, di neri, di bianchi e di ispanici. Un'ora e mezza di treni, di writers, di gangster che sparano ad altri gangster, di canne e di hip hop. The Get Down, la nuova serie che dbutterà su Netflix il 12 agosto, inizia così, come Baz Luhrmann, padre e padrone, ossessionato e ossessivo, ha voluto. Ci ha lavorato per dieci anni, una storia d’amore senza fine.
New York: da una parte il Bronx cadente, regno di disgrazie e disoccupati; dall'altra, skyline perfetto, Manhattan con i grattacieli, i bianchi e i soldi. Siamo tra le fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Luhrmann si diverte ad andare avanti ed indietro: “Ieri, oggi e domani”, avrebbe titolato De Sica. Filo conduttore la musica, sempre e comunque: la nascita dell'hip hop. Come un germoglio che viene su a suon di disco music. In The Get Down le scenografie e le ambientazioni sono eccessive, artificiose, mascherate - talvolta goffamente - dagli effetti e da sfuocature studiate a puntino, post-produzione che va in aiuto di chi non ha avuto tutto il budget di cui aveva bisogno (e pensare, però, che ogni episodio è costato 10 milioni di dollari, per un totale di 120).
Luhrmann, di musical, ne ha firmati tanti. Un visionario. Ha sempre puntato alla spettacolarità delle scene (non alla loro perfezione). E fa la stessa cosa anche qui: a New York si combatte per resistere e tutto, come in un'orrenda cartolina di fine secolo, è sporco e traballante. I protagonisti sono ragazzini in erba, avvicinati da un dj (che di erba ne fuma a tonnellate), inseguiti dai gangster, soli e innamoratissimi - della vita, certo; ma principalmente delle belle figliole che vanno a scuola con loro.
Prima puntata, pilot. Si comincia su un palco avvolto nella penombra alla fine degli anni Novanta, e con una ballata dei tempi moderni in sottofondo si torna indietro: a quando la banda, composta da Books (Justice Smith), Dizzee (Jaden Smith), Ra-Ra (Skylan Brooks) e Boo-Boo (T. J. Brown Jr.), andava in giro per il Bronx aspettando l’uscita di Star Wars, pizzicando le ragazze e mostrando la cresta, galletti sfrontati e senza penne. Giornate tutte uguali, la scuola quasi finita: Books ha un talento naturale per le rime e vince una competizione di poesia, ma si vergogna; mente e dice che ha copiato. Poi la maestra lo prende in disparte e gli chiede di leggere. Ed è lì che inizia tutto: la magia, le lacrime, la musica che (ancora) voleva dire qualcosa.
Books è innamorato di Mylene Cruz (Herizen Guardiola), aspirante cantante e figlia del pastore ultra-bigotto Ramon Cruz (Giancarlo Esposito, che non le manda a dire e mena ferocemente). Lei non lo ricambia (o meglio, fa finta di non ricambiare) e insieme alle amiche progetta di imbucarsi a una festa in un club gestito da malavitosi per fare avere un nastro con la sua voce a un DJ. Tutto va male, i ragazzi devono fuggire, Books ci riprova con Mylene ma alla fine, con gli amici, si ritrova a piangere e a bere finché non incontra Shaolin Fantastic (Shameik Moore) che li introduce a un altro mondo: quello dell'hip hop. Nasce un nuovo gruppo, la speranza non è ancora morta; e The Get Down passa dalla crisi abitativa di fine anni Settanta del Bronx alla genesi di uno dei generi musicali più fortunati e amati e imitati della storia contemporanea.
Insieme ai ragazzi e a New York, l’altra grande protagonista è la musica: che con hit su hit dà i tempi alle scene, si amalgama benissimo ai primi piani, dà le pause e fa riprendere fiato alle battute. C’è Thelma Houston con la sua “Don’t leave me this way” e c’è “Vitamin C” di Can, che fa da riempitivo tra uno stacco e un altro. Poi tanta disco e i brani cantati dai protagonisti, perché ricordate: questo è un musical. Lungo, lunghissimo, oltre dodici ore e mezza, con balletti accennati, strade coloratissime, la mimica che sta sempre sul confine, un po’ film, un po’ serie tv; un po’ esibizione canora.
Alla fine delle prime tre puntate (in totale sono dodici, distribuite in due blocchi separati: sei il 12 agosto, le altre più in là), ci si sente schiacciati, ma anche entusiasti; Luhrmann, in alcuni momenti, è maniacale; certe volte esagera, carica troppo la scena, mette troppi dettagli, troppe cose, troppe persone – e va detto: non ci sono solo personaggi di finzione ma anche figure storiche, veramente esistite; in questo senso, The Get Down si propone come rappresentazione in live action di una parte (importante) della storia della musica. Altri momenti, però, sono perfetti (tenendo sempre presente questo: che la perfezione è un concetto totalmente soggettivo e dipende da quanto e se siete appassionati di musical): arrivano allo spettatore, commuovono, raccontano qualcosa – e i protagonisti, tutti o quasi ragazzini, sono bravissimi. Lei, Herzen Guardiola, è meravigliosa. Lui, Justice Smith, ha una voce bassa, matura, graffiante – colonna sonora di tutta la serie.
Luhrmann fatica quando deve cambiare, quando deve rimanere con i piedi per terra e limitarsi a raccontare (senza musica, senza balletti, solo storytelling). E l’artificiosità plastica della fiction è sempre in agguato. La sua serie va assunta a piccole dosi (anche perché - e l’abbiamo già detto - non è la solita serie tv: ogni puntata dura un’ora intera; il rischio, a volerla vedere tutta insieme, è di rimetterci sonno e salute). È un esperimento, costosissimo e rischioso, non dovesse la gente apprezzarlo. Ed è anche una novità: è la prima volta che Netflix si imbarca in un progetto simile, cantato, musicato e ritmato. Il rischio di rimanerne disgustati è dietro l’angolo; così come è dietro l’angolo un altro rischio: quello di eleggerlo subitamente a capolavoro di genere, a punto di riferimento della serialità televisiva e a grande hit di Baz Luhrmann (al quale, però, non è andata proprio bene con i suoi ultimi film).
In The Get Down si respirano l’ambizione, l’ossessione e la passione. Tre ingredienti che, se miscelati bene, riescono a fare la differenza tra successo e insuccesso. Ma che se uniti nelle dosi sbagliate tengono lontano lo spettatore e gli fanno scegliere un altro piatto: “Grazie, ma no grazie. Il musical non fa per me”.
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