Locarno 2016
Al Festival di Locarno storie di Isis e hijab e giovani millennial con l'animo da cineclub
L’Isis è una storia romantica. Lo è per Melanie, sedicenne francese che vive a Créteil. Dove è nata la regista, che al liceo Léon-Blum aveva girato il suo film precedente, “Les Héritiers”: un professoressa doma una classe multiculturale e rissosa convincendo gli allievi a studiare le deportazioni naziste, invece di farsi imbeccare da internet. Melanie suona il violoncello, vive con la madre separata, fa la ribelle e pensa che “un altro mondo è possibile”. Lo pensa anche un giovanotto conosciuto su Facebook, che si annuncia con la foto di un leone e comincia a circuire la ragazza, non particolarmente attraente (si può ancora dire? speriamo di sì).
Melanie è il tipo di fanciulla che in un film americano sarebbe corteggiata da un vampiro (così la saga “Twilight” ha costruito la propria fortuna: Bella non è speciale, è la ragazza che nessuno si fila, scatta subito l’identificazione). In “Le ciel attendra” – a Locarno in anteprima, uscita francese il 5 ottobre – viene convinta a velarsi, a non stringere la mano agli uomini, a pregare cinque volte al giorno, a conservarsi pura per l’uomo che la sposerà, quando avrà lasciato la Francia. L’adescatore si fa chiamare il Principe – e intanto chissà con quante altre sta flirtando. La regista Marie-Castille Mention-Schaar ha cominciato a girare il giorno dopo la strage al Bataclan, quando l’attenzione era concentrata su maschi dal cognome esotico. Sceglie due ragazze – l’altra si chiama Sofia e non è neanche bruttina, né figlia di genitori separati, nel caso scattasse la sociologia sull’infanzia difficile, o la psicologia sulla depressione adolescenziale – per mostrare il lento convincimento che conduce a odiare l’occidente. Magari cominciando dalle multinazionali, continuando con il consumismo, aggiungendo un po’ di complottismo applicato alle banconote americane, discorrendo di scie chimiche e degli effetti che hanno su di noi. In “Le ciel attendra” troviamo tutto, in un’escalation impressionante.
Era il film più interessante e contemporaneo in programma al Festival di Locarno, assieme a “The Girl With All The Gifts” di Colm McCarthy (zombie con qualcosa da dire, come i baccelloni in “L’invasione degli ultracorpi" di Don Siegel raccontavano nel 1956 la Guerra fredda ). Proiettati in Piazza Grande, dove non c’è stato il solito pienone. Per quanto gli spettatori svizzeri siano inclini al cineclub, un film come “Stefan Zweig in America” non attira quanto attirò a suo tempo “Little Miss Sunshine” di Jonathan Dayton e Valerie Faris (nel 2006 cominciò da qui la sua marcia trionfale ai botteghini). Nel film di Maria Schrader lo scrittore austriaco ha un bel completo bianco con cappello e la giovane moglie d’ordinanza. Parlano e discutono, potrebbe essere un radiodramma, sul tema: Il Pen Club deve o no condannare Hitler e la Germania nazista?
In concorso, una manciata di titoli scelti apposta per far dire allo spettatore “due ore di vita buttate via”. Frase che abbiamo sempre odiato, ma finiremo per rivalutare: del resto quando in un film tutti i personaggi sono catatonici o uno esce prima della fine oppure rimpiange il tempo perso. E comincia ad apprezzare un film rumeno tutto in un sanatorio degli anni Trenta: il protagonista soffre di tubercolosi ossea, viene ingessato dalla vita al collo, cinque minuti dopo i titoli di testa. Entrambi gli esempi sono reali, del primo vogliamo dimenticare anche il titolo, il secondo è “Scarred Hearts” di Rude Jude.
Per salvarci – e per curiosità, a Locarno esiste da cinque anni un workshop dedicato ai giovani critici diretto da Eric Kohn di IndieWire, sito che recensisce pressoché tutto, con idee e buona scrittura – siamo andati alla tavola rotonda “Cultures of Criticism in Digital Age”. Eric Khon era appunto il maestro di cerimonie, circondato da nerd che si sarebbero potuti trasportare senza danni in un episodio di “The Big Bang Theory”: scarpe grosse, calzini a righe, occhiali con montatura nera, un blocchetto per appunti invece del tablet. Ha ancora senso la critica ai tempi di Buzzfeed, delle gallery, degli articoli-lista, dei social network, dell’uno-vale-uno in materia di giudizi? Se lo chiedono anche i giovani critici, senza arrivare a conclusioni degne di nota. Neppure originali: o racconti film di cui nessuno parla (ma allora devi scordare i clic e puntare alla nicchia), o racconti gli stessi film che raccontano tutti (allora i clic arrivano, e però per farti chiamare critico va fatto in maniera originale). E perché siamo tutti qui a Locarno, a vedere i film nella stessa sala buia, quando potremo vederli a casa con comodi link? Qui una risposta non l’ha data nessuno.
Eric Khon
Hanno preferito rilanciare con citazioni di André Bazin – sì, proprio lui, il francese che fondò i “Cahiers du cinéma” ha conquistato anche i nativi digitali. Che, detto tra noi, coltivano in cuore una voglia di cineclub con dibattito che sembrava sparita da un paio di generazioni almeno. Tutto sembra filare liscio, quando qualcuno nomina “Suicide Squad”, uscito negli Usa lo scorso weekend: critiche pessime e incassi alle stelle. Naturalmente si prendono le distanze, naturalmente si deplorano i blogger in combutta con Hollywood, naturalmente si deplora la donna oggetto Margot Robbie. Naturalmente ci si autoproclama scomodi e incorruttibili. Insomma, giovani e già sulla via del lamento. A distinguersi, Kevin Lee, l’unico dei convegnisti che fa critica veramente “digital”. In formato video. Tre minuti di geniale montaggio sulle donne di “Ghostbuster” – il primo – per mostrare quanto era stato cafone Bill Murray con Sigourney Weaver.