L'Huffington senza Huffington. Arianna lascia per fermare il “declino”
Roma. Intellettuale, celebrity, guru mediatico, influencer politico, esperta tuttologa, faro della politica liberal americana, evangelista di un nuovo metodo per raggiungere il benessere psicofisico, autrice. Arianna Huffington è tante cose tutte insieme, ma da ieri ha smesso di essere forse la più importante: direttrice del giornale online da lei fondato undici anni fa e che porta il suo nome, l’Huffington Post (da ora in poi HuffPost, per evitare fraintendimenti). In un comunicato, ieri la Huffington ha annunciato che lascerà il sito a cui ha dato il nome, dove non ricoprirà più nessuna posizione, per concentrarsi sul suo nuovo sito, Thrive Global, un progetto dedicato a migliorare lo stile di vita e la produttività dell’uomo moderno, in continuità con la sua ultima ossessione (il suo ultimo libro, pubblicato l’anno scorso, riguarda i benefici del sonno). Ufficialmente, Huffington si è dimessa dall’HuffPost perché non riusciva a curare adeguatamente gli interessi di entrambe le società che aveva a mano, il giornale e Thrive Global. Ufficiosamente, l’Huff Post America è da anni in declino relativo, e la compagnia editoriale a livello globale vive una situazione societaria non ottimale.
Dai 119 milioni di visitatori unici a ottobre 2014, l’HuffPost è crollato, secondo i dati di ComScore, a 74 milioni nel giugno di quest’anno. I numeri sono comunque stellari, e l’HuffPost resta il 156esimo sito più visitato al mondo, ma il declino è evidente. Tanto più che la società è sempre stata una fornace di denaro, se è vero, come scrisse il New York Times, che ha raggiunto il break even, il pareggio di bilancio, soltanto nel 2015, dopo dieci anni di attività. Agiungiamo a questo i continui cambi di proprietà: nel 2011 l’HuffPost è stato comprato da Aol, che a sua volta, l’anno scorso, è stata comprata da Verizon, il gigante delle telecomunicazioni. Al momento dell’acquisizione, nel maggio 2015, il contratto della Huffington era in scadenza, e non è stato rinnovato fino a giugno di quest’anno, segno di negoziati burrascosi. Lo scorso mese, poi, Verison ha acquisito anche Yahoo, il cui settore media è simile per dimensione e scopo all’HuffPost. Gigante nel mondo del giornalismo su internet, l’HuffPost si è trovato a essere niente più che una nota a margine nelle trimestrali di Verizon, e questo è un brutto segnale di perdita di preminenza.
Al declino relativo nei numeri è seguito inoltre un declino anche nella presa dell’HuffPost sul discorso politico americano, questo forse ancora più preoccupante. Se alle elezioni del 2008, e ancora in parte nel 2012, l’HuffPost e i suoi blog erano al centro del dibattito politico, dettavano l’agenda liberal e sono stati tra i grandi alfieri mediatici dell’elezione trionfale di Obama, a questa tornata elettorale è difficile pensare a episodi in cui il giornale della Huffington ha trascinato il dibattito. I grandi siti e i commentatori condivisi, commentati e virali ormai sono altri. E anche per la Huffington le luci della ribalta hanno iniziato ad allontanarsi, seppure impercettibilmente – e per qualcuno che dà il proprio cognome al giornale che fonda, questo potrebbe essere un tormento difficile da sopportare. La decisione delle dimissioni, in questo senso, potrebbe essere un tentativo di evitare che al declino dell’HuffPost corrisponda il declino di Arianna Huffington.
Il risultato è che oggi una delle più importanti testate americane si trova in una situazione curiosa. La Huffington è stata una pioniera nella personalizzazione del giornalismo, nell’esaltazione dei blog firmati e della promozione del proprio brand giornalistico personale. In molti in America l’hanno seguita nel mettersi in proprio al di fuori dei grandi giornali generalisti, da Andrew Sullivan (ex New Republic) a Nate Silver (ex New York Times) a Ezra Klein (ex Washington Post). Ma adesso l’Huffington Post si ritrova senza Huffington, e il giornale personalizzato senza persona.
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