Le corna irresistibili di The Affair
Aveva ragione Mariarosa Mancuso quando, nemmeno un anno fa, scriveva che The Affair è un ritratto azzeccatissimo della contemporaneità adultera e cornuta in cui viviamo. Ora che la serie tv di Showtime sta per tornare (il conto alla rovescia è ufficialmente cominciato: messa in onda fissata per i primi di settembre su Sky Atlantic), c'è giusto da fare qualche parallelo con il resto della produzione televisiva di questi anni: cosa è meglio, e se The Affair è ancora così attuale.
La storia ha per protagonisti due amanti, la narrazione alterna continuamente i punti di vista, così da mostrare allo spettatore un quadro quanto più completo – e ragionevole – possibile. Lei vede lui come un corteggiatore insistente, lui è convinto che lei sia innamorata. Non va sempre così? E la ragione, come sempre, non “sta nel mezzo”?
The Affair è una di quelle serie che, senza esagerare, potremmo catalogare sotto la voce “successo”: alla prima stagione, due Golden Globe, il plauso di critica e pubblico e anche una promozione avanguardistica (il pilota venne distribuito online, via Youtube e altre piattaforme video). Da una parte c'è Noah Solloway, interpretato dall'inglese Dominic West: insegnante e scrittore, papà di quattro bambini e marito. Dall'altra Alison Lockhart, sguardo da gatta di Ruth Wilson (uno dei due Golden Globe è andato a lei: miglior performance femminile in un drama televisivo): cameriera in crisi profonda dopo la morte del figlio. I due si incontrano a Montauk, Long Island. Si conoscono, si piacciono e finiscono a letto – e come spesso accade, il sesso di nascosto è molto più bello del sesso tra sposati.
Noah e Alison si raccontano – e raccontano la loro storia – perché, proprio al tempo del loro intrallazzo extra-coniugale, c’è stato un omicidio. Quindi ora sono ascoltati dalla polizia e da noi che, beati, ci lasciamo intrattenere dalle loro scopate e dai loro segreti.
È interessante, in un'accezione quasi scientifica, vedere come i due autori e showrunner, Hagai Levi (che ha già lavorato a In Treatment) e Sarah Treem, un uomo ed una donna, siano riusciti a rendere credibile un racconto che, vuoi o non vuoi, ha già attraversato negli anni il grande e il piccolo schermo e che di nuovo – leggi: di innovativo – non ha molto.
È altrettanto interessante la costruzione dei personaggi, uno dei pilastri portanti delle serie tv di questi anni: storia banale, sceneggiatura quasi letteraria, ma grande – grandissimo – spazio per gli attori e per i ruoli che interpretano. Come a teatro: una messa in scena con i fiocchi. Con l’unica, fondamentale differenza che qui gli atti non sono così divisi, e che accanto a noi non c’è nessuna signora commossa – ma solo i cuscini del nostro divano.
In The Affair, tutto è un gioco di piani alternati e di scene strutturate al millimetro. E anche solo per questo – ecco che arriva l’esagerazione del critico – merita d’essere vista. Poi aggiungeteci che oggi di serie così, tutto sommato semplici, tutto sommato lineari, ce ne sono veramente poche: perché c’è il tentativo – estremo, e che fa molto cinema de noartri – di impuntare tutto sull’autorialità, di fare a gara con gli altri a chi ce l’ha più lungo, dimenticando la cosa, forse, più importante: intrattenere il pubblico. E qui, grazie al cielo e a Cupido, d’intrattenimento ce n’è a pacchi.