Margaret Thatcher, la prima donna a guidare la Gran Bretagna, non è mai stato un simbolo femminista. Anzi (qui nella celebre foto sul carro armato nella Germania ovest del 1986)

Donne che odiano gli uomini

Sofia Silva
Nutro una predilezione per le donne che soffrono insofferenti e detesto le compagnone che mettono tutti a proprio agio. Ecco perché invece di alimentare il dibattito sui costumi da bagno femminili bisognerebbe recuperare la sublime bellezza delle femmine misantrope. Tre storie.

Stuoli di geniali, deliziosi misantropi, uomini e donne, imperversano per il pianeta. Artisti e artiste che nel fiore degli anni si rinchiudono in una stanza a scrivere poesie divine. Misantropi amorosi, impauriti dall’umano e dal sovraumano, rifuggono i vizi quanto le virtù. Tra costoro l’incorruttibile Alceste, inventore di mille modi di volersi male volendosi bene e viceversa, il Misantropo di Molière che ha in odio cialtroni, lecchini, “inventori d’inchini”, l’ardito, il vile, “l’uomo serio e il melenso”, il cuore corrotto, quello sano e “chi ama tutto il genere umano”. Alceste, il signor “Io non scherzo un bel niente, quel che vedo m’offende” è puro e purista, difensore della ragione e del giusto diffida della parola (metà dei suoi improperi sono indirizzati agli adulatori) e teme d’essere dalla parola stessa contaminato; un’anticipazione del romantico elisabettiano Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, il più che promettente giovanotto che decide di abbandonare la parola per l’estasi.

 

Nutro una predilezione per le donne che soffrono insofferenti e detesto le compagnone che mettono tutti a proprio agio, sorridenti scrivendo articoli sui miglioramenti urbanistici delle città e dell’igiene intima femminile, fiumi di parole sui vestiti di Baby e i libri di Betty e mangiano e ridono con l’umiltà o la bontà o la gentilezza o il buonsenso o la voglia di imparare o l’ironia o l’arguzia o o o stampati in faccia. Sì, proprio così, le detesto. Viceversa, come un bignè il giorno del digiuno, mi piacciono le sante della Chiesa, le donne che disdegnano tutto quel che al mondo pare degno. Trovo così sapiente e insieme infantile quel loro esiliarsi, quel moto di disgusto per l’altro chiunque egli sia. Adoro la loro eleganza nel non dire, nel bandire tutto ciò che concerne una felicità di cui non sanno che farsene, e che disprezzano proprio perché rende felici. Invidiano le ragazze e le mogli del mondo esterno? Le odiano? Macché, le amano come si ama un martire. Odiano gli uomini? Nemmeno per sogno, semplicemente non esistono. E allora? Odiano se stesse con tutto il cuore immacolato e sanguinante della Vergine, la loro misantropogenia è pura e sublime come un frutto della passione, posso dire che spiandone una dietro la grata mi sentii un po’ disgraziata e un po’ partecipe grazie al filo nero dell’invidia. Togliamo ogni ‘antropos’ generatore di disordinata entropia, lasciamo il puro ‘misos’, che solitario risplende nella cappella alle cinque del mattino.

 


Una donna in burkini in una spiaggia di Marsiglia (foto LaPresse)


 

Sublimi misantrope sono le brave ragazze che si nascondono dietro la gonna a ruota. E lavorano, e parlano quel poco che la dice lunga, quel poco che avrebbe distolto l’arrogante Lord Chandos dal suo irrimediabile disprezzo per la parola. Se mai avverrà una rivoluzione non violenta, pigra, insensata, addirittura inesistente e quindi decisiva, una vera rivoluzione, sarà opera loro, delle brave ragazze. Sbaglia chi taccia di le donne crudeli come la Marchesa di Merteuil o la disperata Lady Macbeth; sono passionali, cattive, sensuali, bulimiche, tutto questo e altro ancora, ma non misantrope, per loro disgrazia. La virginea principessa di Clèves piuttosto, lei ha la “mise”; fosse campata più a lungo, sarebbe diventata la regina, una che non si sporca le mani con la realtà e che all’amore con tutti i suoi rischi preferisce il nulla, il suo inebriante profumo di vendetta. Certo, c’è una componente misantropica nell’inganno e nel tradimento, ma la vera misantropa tradisce perché va di fretta e non si vuole accollare le lunghezze della lealtà.

 

A mo’ di universale esempio incontriamo ora tre donne la cui vita, il modo di esporsi al destino e di schiacciare il naso alla gente alla maniera di Stavrogin, mostrano l’immagine più completa di cosa sia la misantropia femminile.

 

1. G. è una splendida psicanalista che grazie alla sua ostentata misantropia ostacola, contrasta e fa a pezzi cinque suicidi al mese e almeno cinquanta depressioni all’anno. Con la parola li salva, con il pensiero li odia, ne viene fuori un uomo nuovo, che uscendo dallo studio di G. si guarda attorno cercando qualcosa. G., 40 anni, ha occhi dolcissimi e odia per puro gusto, senza rancore e fin con amore, direi, se è lecito dire certe cose. Le piace odiare nella speranza di essere odiata, un incontro coi fiocchi. Quel che più odia sono le consonanti sorde, in particolar modo la “p”. Quando un paziente pronuncia la p con avida indolenza, come se altro non domandasse al destino, G. gli chiede: “Ha problemi al muscolo labiale?”. Il poveruomo le risponde che no, semplicemente le sue labbra si accostano soffici nel pronunciare la consonante p, e così da sempre. G. trasale a quel suono, velocemente passa in rassegna tutto il male che potrebbe fargli se non fosse una santa, e chiama lo sventurato il “Pappapasta”, perché un’altra cosa che lei odia è la pasta, che connette alla “p”. Odia la pasta per colpa di Filippo Tommaso Marinetti che in una serata buia le ha messo in mano un suo rarissimo libriccino facendole notare come questo ignobile alimento sia amico della pennica. La pasta sfinisce gli italiani, gli italiani sono cloroformizzati dalla pasta.

 

G. prende sempre sul serio i suoi scrittori, ovvero di mira. Odia la carne di suino a causa di John Berger. Il critico inglese le ha fatto notare che il maiale è l’unico animale edibile che a sua volta si nutre di altri avanzi animali, contenuti nel p.p. “pastone per porco”. G. odia mangiare carne di secondo grado. G. ha molte amiche cui si rivolge con l’appellativo di “fanciulle in fiore”. Non le odia in quanto tali, anzi, coltiva con cura il dialogo con tutte, purché questo avvenga alla lontana, per email, WhatsApp o Facebook. Quando le incontra, schiuma dalla bocca. Quando un collega chiama G. e le dice: “Ti ho fatto un invio. Un ragazzino psicotico che si è scompensato quando il suo migliore amico gli ha fatto delle avances omosessuali. C’è da fare lavoro di compensazione”; G. risponde: “Che palle”. Poi ci pensa e aggiunge: “E’ solo una grande rottura di coglioni che oggi siano tutti psicotici, mentre negli anni Novanta samba con le nevrosi. Lì si potevano cazziare i pazienti, invece con questi nisba. Lo psicanalista è diventato un feltrino per sedie. Compensare, compensare, compensare”. Quando un paziente prova a farla partecipe di un proprio sintomo, G. lo ascolta dalla poltroncina dietro la chaise-longue, schiuma dalla bocca, sbava, rantola e si addormenta. Eppure G. è brava, sa ascoltare, intende qualsiasi parola e persino quando s’addormenta lo fa al momento giusto.

 

2. M., 35 anni, pensa che i suoi bambini siano orrendi e, al pari del barone Frankenstein, li odia. Si rifiuta d’amare i bambini degli altri perché non vuole urtare i sentimenti dei propri; se la vita l’ha predisposta a odiare bambini, allora dovrà essere democratica. Ogni scarafone è orrendo a mamma sua, ma i bimbi di M. anche a tutte le altre mamme dell’asilo. I genitori li hanno sempre ascoltati e curati nella giusta misura eppure Egisto e Oreste sono proprio antipatici. Nessuno si sa spiegare perché, ma così è. “Hai mai pensato di cambiare i loro nomi all’anagrafe?”. “Ma che ne so…”. “Hai chiesto aiuto a qualcuno?”. Alza le spalle. “E quindi che pensi di fare?”. “Andarmene!”. “E tuo marito?”. “Lo odio!”. “E tua madre?”. “La odio”. “Le tue amiche?”. “Puttane!”. M. suda al pensiero di dover vivere per altri quindici anni a Monteverde con Egisto, Oreste e il marito. Sventola le mani sulla faccia come un passero in scatola sbatterebbe le proprie alucce. L’amante, l’hobby e la carriera non se li trova, non vuole trovarli, non li può trovare, non la vogliono trovare. “Senti, io non ce la faccio veramente a iniziare col pesce se non ho finito di cucinare la pasta” è la sua metafora universale.

 

Si dà dei tempi, dei sogni. Prima Egisto e Oreste escono di casa, poi divorzia dal coniuge, poi inizia una nuova vita. Nel frattempo il suo idolo è Cristina di Markyate, una pia anacoreta che intorno all’anno 1020 scappò dal marito per rifugiarsi in un eremo, ma non da sola, con un altro eremita. Benintesi, non ci faceva nulla, leggeva il proprio salterio esercitandosi in una delle prime grandiose esegesi autonome femminili del testo scritto. Era colta ma ignorans, isolata dalla società si affidava alle scritture. M. vorrebbe lo stesso per sé, non vuole l’amore, né l’amicizia, non vuole il successo, né fare i biscotti o curare le piante, non vuole scrivere, non vuole recitare, vuole la pace. Vi fa ridere? M. piange ogni giorno. Di nascosto, come tutte le misantrope.

 

3. L. è vedova da settant’anni. La morte l’ha visitata più volte, ora uccidendole un muscolo, ora spegnendole un occhio, ma da molto tempo pare essersi stancata di far visita a L., che ogni giorno apre gli occhi sulla propria eternità: “Mi hanno dimenticata qui”. Esistevano uomini e donne, un tempo, che le piacevano. Negli anni Trenta ebbe un’amica, nei Quaranta un marito. Un giorno, poco prima che il marito partisse per la guerra, scoprì che lui e l’amica si amavano. “Continuerò a prendermi cura di te”, lui la rassicurò, non sapendo che il giorno dopo una bomba sarebbe caduta sulla nave da cui lui stava salutando l’amante. L. rimase sola. Non tristezza, né rancore, un rapporto piuttosto solidale se non addirittura amichevole con la morte. “E’ la vita, è la vita che è meglio non incontrare mai”. L. continuò a comprare il pane la mattina, se ne stava in biblioteca il giovedì e al lago di sabato.

 

Si astenne dal sentimento. Pregò i corteggiatori di lasciarla perdere, supplicò i parenti di non chiamarla in caso di bisogno, pregò le amiche di non confidarle mai i loro segreti. E ogni volta che la voglia di giocare sembrava ritornarle, che si sentiva meno stanca, pronta a incontrare almeno un altro batticuore, prendeva un sonnifero, due pastiglie. Nessun giudizio su L., lei stessa chiede l’ingiudicabilità. Distogliere gli occhi dall’umanità è misantropia? “Non ho distolto gli occhi dall’umano – mi dice L. – l’ho dimenticato”. Tale è la nobiltà della sua voce, che viene da chiedersi se la misantropia, per una strada o per l’altra, non porti verso l’umanità, a comprenderla e amarla nei toni più profondi.

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