Basta con lagne e pessimismo, guardate i numeri: l'età dell'oro è adesso
Milano. L’età dell’oro è adesso, scrive lo studioso svedese Johan Norberg, non perdete tempo a storcere il naso e a lamentarvi, non fatevi trascinare dalla politica del pessimismo, guardatevi attorno, guardate i numeri. “Progress. Ten Reasons to Look Forward to the Future”, l’ultimo saggio di Norberg pubblicato nel Regno Unito la settimana scorsa, è un inno alla fiducia nel futuro, la spiegazione fattuale di come il mondo stia migliorando, nonostante soltanto il 5 per cento degli inglesi – e il 6 per cento degli americani, che pure sono generalmente considerati i fiduciosi in chief globali – pensi che davvero il progresso sia per il meglio. Norberg, cresciuto nella periferia di Stoccolma come anarchico di sinistra, diventato poi liberale perché “la libertà è una cosa da prendere sul serio”, aveva scritto nel 2007 un libro in difesa del capitalismo che gli garantì una certa notorietà e un posto da ricercatore al Cato Institute. Da allora si occupa di celebrare i successi del progresso, pubblica su Twitter grafici in cui i mali del mondo – povertà, fame, mortalità infantile – risultano in costante calo e lancia slogan del tipo “nel tempo in cui avrete finito il primo capitolo, duemila persone al mondo usciranno dalla povertà” (semmai l’unica nota stonata di questo scintillante ritratto della nostra contemporanea età dell’oro è la domanda che ripete insistentemente Norberg, facendoci sentire miopi e lagnosi e persino un po’ scemi: come fate a non vedere, a non capire, a non sapere che stiamo sempre meglio?).
Norberg è convinto che la mancata fiducia nel progresso sia il problema di questo tempo, come dimostra l’avanzata dei vari populismi, di destra e di sinistra, lui non fa differenza, anzi sostiene che siano entrambi frutto della stessa diffidenza. Gli americani credono nell’astrologia e nella reincarnazione più che nel progresso, scrive Norberg, ma dalla fine della Guerra fredda la ricchezza economica, il pil pro capite, è cresciuta quasi quanto nei 25 mila anni precedenti: “Non è una coincidenza il fatto che questa crescita sia avvenuta assieme a un’espansione massiccia dello stato di diritto. Un quarto di secolo fa, quasi metà dei paesi del mondo era in democrazia, ora quasi i due terzi”. Dalla fine della Guerra fredda, la povertà estrema è scesa dal 37 al 9,6 per cento, è scomparsa la doppia cifra per la prima volta nella storia. E anche la middle class americana, che oggi si sente impoverita e che per questo cerca arrabbiata rifugio in una politica di smantellamento dell’ordine costituito, patisce la crisi ma ha visto il suo reddito crescere del 30 per cento dal 1970 a oggi. I dati sulle vite più lunghe, più sicure, più sane, più tolleranti e più prospere sono tanti e, messi tutti assieme, fanno davvero pensare che sia il momento di mettersi a festeggiare. Eppure no, non festeggia nessuno.
Norberg dice che il pessimismo è un retaggio storico antico, che la natura pioniera e cacciatrice dell’uomo lo spinge a non fermarsi a godere di quel che ha ma a cercare nel futuro le nuove minacce da sconfiggere: il pessimismo però ha conseguenze politiche e questo spiega la diffidenza nei confronti dei partiti e della globalizzazione. Ma un cantore dell’ottimismo come Norberg non si ferma, porta ulteriori prove sui benefici del progresso, che si parli di guerre o che si parli di energia rinnovabile, il trend è sempre verso il miglioramento, chi vi dice il contrario gioca con la paura e con la realtà, “cercando capri espiatori per i problemi che rimangono” Così, uno svedese nato anarchico e diventato “profeta dell’antipessimismo”, come lo definisce Simon Jenkins sul Guardian, confeziona un manuale che farà discutere – perché i “left behind” esistono – ma che “è un’esplosione di buon senso”, dice l’Economist, perché la crescita si basa sulla conoscenza, e la conoscenza è sempre più condivisa, “e la risorsa più importante è il cervello umano, che è riproducibile con gran piacere”.