Il caso Raggi, il web matrigno e la massima di “American Anarchist”
Roma. La morte internettiana è impossibile, dicono ormai persino i nonni, citando la massima universale “scrivi qualcosa sui social network e ti perseguiterà per sempre”, mentre la politica si interroga attorno all’uso e all’abuso del web benigno e matrigno, con la rete borbottona che adocchia post apparentemente innocui, le minuzie su scontrini o streaming che si fanno minacce, le informazioni pubblicate per “trasparenza” che si stringono attorno al collo di chi, affiggendole su una bacheca di computer, pensava di essere immune da tutti i mali del mondo, e i momenti complicati della vita politica reale (caso Raggi a Roma) che ispirano a protagonisti e comprimari una certa prudenza nell’esistenza virtuale (Facebook).
E però, proprio nei giorni in cui il movimento a Cinque Stelle, nato sul web-che-nulla-cancella, si ritrova a fare i conti con l’assurdo delle troppo teoriche regole autoimposte che ti strozzano sull’account twitter come nell’aula consiliare romana, alla Mostra del Cinema di Venezia è arrivato “American Anarchist”, il documentario che parla dell’impossibilità di oblìo mediatico, ma partendo da un’epoca in cui internet non c’era. E insomma può succedere anche questo: che uno venga inseguito neanche tanto metaforicamente e a vita da qualcosa scritto con avventatezza, magari in giovane età e in epoca di contestazione generale (il 1971, nel caso in esame). Qualcosa di assurdo e potenzialmente pericoloso, buttato giù con il furore del diciannovenne ancora un po’ scemo che si sente in credito col mondo, come dice a Charlie Siskel (regista) il mite ma non arrendevole William Powell, oggi anziano professore esperto in insegnamento a bambini con difficoltà di apprendimento, ma ieri incauto e irruente autore (a 19 anni, appunto) del “Ricettario dell’anarchico” (“The anarchist cookbook”), libello di istruzioni per la costruzione casalinga di ordigni rudimentali e bombe al napalm, scritto con l’impeto dell’incoscienza da un giovanissimo Powell rivoluzionario e antisistema.
Non c’era la rete, allora, ma era bastato un editore spregiudicato a mandare alle stampe il libello del fai-da-te esplosivo che venderà milioni di copie e prenderà la sua strada, ma con molti anni di ritardo e dopo un decennio di “sonno” (in cui Powell era diventato un altro uomo dal punto di vista personale e politico, al punto da disconoscere in fretta l’opera dal sen fuggita). Ma, a partire dagli anni Novanta e fino a oggi, con la Rete in rapida espansione, il libro di Powell è diventato il “presunto” manuale di riferimento di molti giovani autori di stragi e omicidi (Oklahoma City, Columbine, misfatti di “lupi solitari” targati Isis, tutti con una copia del “Cookbook” in cameretta).
E io che c’entro?, Perché quel libro mi tormenta ancora?, sembra inizialmente dire al suo intervistatore (implacabile) un William Powell che lì per lì tenta la strada della parziale rimozione; che c’entro io, che 40 anni fa ho ceduto i diritti del “Cookbook”, io che non ho mai più voluto parlare di quel libro, salvo in una lettera aperta a un quotidiano inglese e in una nota su Amazon, entrambi testi di pubblica condanna e dissociazione? Eppure, sia la lettera sia la nota furono ignorate dal mondo, dice Powell, a differenza del suo giovanile scritto bombarolo, vendibile a lungo e senza problemi sulla Rete. Perché? Powell non trova risposta al tormento dell’indelebilità (combinata con il moderno “cretinismo” da pancia del web). E chissà se le sue parole – “da giovani facciamo tutti delle stronzate, la differenza è che la mia fu pubblicata”– possono portare sollievo all’odierna angoscia a Cinque Stelle sull’incancellabilità dei post e delle non-regole che imprigionano gli abitanti del non-fatato mondo della Rete.