Il serpente che si annida nei paradisi di Ballard
Il serpente – Settimo e ultimo appuntamento con il libro dell’estate: dopo “Serenata” di James Cain, “La valigia” di Sergej Dovlatov, “Il popolo dell’abisso” di Jack London, “Badenheim 1939” di Aharon Appelfeld, “Daisy Miller” di Henry James e “E’ andata così” di Meir Shalev, da oggi in uscita con il Foglio "Il Paradiso del diavolo" di James G. Ballard, scrittore britannico con un debole per i paradisi, naturali o artificiali. Il romanzo è stato pubblicato nel 1997, qui tradotto da Antonio Caronia per l’edizione Feltrinelli.
La febbre dell’albatro. Colpisce la dottoressa Barbara Rafferty, attivista a bordo di un gommone diretto verso l’atollo di Saint-Esprit, 600 miglia da Tahiti. Sono in programma esperimenti nucleari tra gli uccelli migratori cari ai poeti (Coleridge pensava che ucciderne uno portasse sfiga, Baudelaire paragona l’albatro a chi scrive versi, maestoso quando vola e goffo quando si posa a terra). Veterana delle giuste cause, ha già manifestato contro il buco nell’ozono, l’effetto serra, la caccia alle balene. Ma l’albatro viene meglio in fotografia. Soprattutto da morto, in braccio a Miss Rafferty che nel frangente ha dimenticato di abbottonare per bene la camicia fradicia. Meglio anche del cormorano invischiato nel petrolio.
Dobbiamo l’inquadratura con l’albatro morto e il capezzolo in vista alla perfidia di James G. Ballard, scrittore britannico con un debole per i paradisi, naturali o artificiali. Dagli atolli dove ambienta “Il paradiso del diavolo” al grattacielo fuori Londra di “Il condominio”. Dal parco tecnologico di Sophie-Antipolis, poco lontano da Cannes, alle casette in Costa del Sol dove svernano i ricchi pensionati d’Europa. Dai villaggi con la sbarra (più il guardiano all’entrata e le telecamere dappertutto) fino a Chelsea Marina, sobborgo londinese di fantasia affacciato sul Tamigi.
Piccolo dettaglio: nei paradisi serve un serpente. Se il serpente non viene contemplato perché gli utopisti e gli architetti pensano di poterlo cacciare via con la sua mela, dentro il recinto succederanno cose atroci. Nel paradiso condominiale un blackout fa scoppiare una guerra tribale, il racconto si apre con la frase: “Seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti dei tre mesi precedenti”.
Nel paradiso degli scienziati nessun dottore riesce a guarire una feritina al ginocchio. “Un gioco da bambini” nel villaggio con la sbarra fa scomparire tutti gli adulti. La borghesia di “Millennium People” fa barricate con le Volvo e prepara molotov con le bottiglie di champagne. Nel paradiso esotico dove la dottoressa Barbara Rafferty sbarca con il cineasta al seguito – si chiama Neil, lavorava mezza giornata come operatore all’università delle Hawaii – i serpenti da cacciare sono i francesi: “Comprare una Citroën o un foulard di Hermès era un peccato mortale, come la distruzione di dieci acri di foresta pluviale”.
Nato a Shanghai nel 1930, James G. Ballard ha abitato molti anni a Shepperton, in un complesso residenziale con la sbarra molto simile a quelli che racconta nei romanzi (faceva lui la parte del serpente, quindi andava tutto benissimo). Morto nel 2009, aveva l’occhio lungo dei bravi romanzieri. “Il paradiso del diavolo” pare scritto l’altro ieri, non nel 1994. I social network non erano ancora inventati, al documentario di Al Gore “Una scomoda verità” mancavano 12 anni, i divi come Leonardo DiCaprio non discettavano ancora di “impronta carbonica”. Ballard anticipa tutte le smanie che verranno, e tutti i toni dei predicatori che minacciano le fiamme dell’inferno ecologico.
La dottoressa Rafferty ha il pallore di chi frequenta gli studi televisivi, e pure un’infezione all’occhio (non vuole antibiotici, testati su animali e popolazioni del Terzo mondo). Venera la natura al punto che oltre all’albatro vuole salvare le zanzare (per amore della biodiversità, non vorrebbero buttare via neanche il virus del vaiolo). Ha inoltre una sua radicale agenda femminista, da scoprire nel suo orrore. Come diceva Jonathan Switft, le fissazioni non viaggiano mai sole.