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Così i nemici dell'occidente silenziano i suoi prodigi

Luciano Pellicani
I pessimisti, progressi taciuti e capitalismo denigrato. Le rivoluzioni industriali hanno trasformato la civiltà della sudditanza in civiltà della cittadinanza. I numeri

C’è un fenomeno che caratterizza in maniera vistosa il nostro tempo: il pessimismo culturale. Innumerevoli sono gli intellettuali che si dicono certi che l’occidente è una nave alla deriva e che il suo naufragio è solo questione di tempo. In aggiunta, dai sondaggi emerge che – in Europa come negli Stati Uniti – solo una esigua minoranza ritiene che lo stato di salute del mondo sia migliorato negli ultimi decenni; ed emerge altresì che altrettanto esigua è la percentuale di coloro che credono nel progresso. La cosa non è solo preoccupante, è anche sorprendente. Infatti, da tutti i dati a nostra disposizione risulta con la massima evidenza che – nonostante le perduranti diseguaglianze di classe che si registrano nei paesi opulenti e la spaventosa miseria del “proletariato esterno” – oggi il mondo, nel suo complesso, è un luogo migliore di quanto non lo sia mai stato in passato. I benefici di massa prodotti e diffusi dalla rivoluzione capitalistica non possono non essere considerati “miracolosi”, se si tiene conto di alcuni fattori.

 

Si pensi alle tremende condizioni in cui vivevano le classi proletarie delle società preindustriali: permanentemente assediate dalla fame, costrette a eseguire lavori massacranti, spietatamente colpite dalle malattie endemiche (la tubercolosi, la sifilide, il colera, la malaria, il tifo, il vaiolo, eccetera), condannate all’ignoranza più totale e assoggettate alla dura tirannia dei loro dispotici padroni.

 

Alla corta memoria dei neoluddisti va ricordato che 150 anni fa gli operai, con il loro salario quotidiano, potevano comprare solo 3 chili di pane! Oggi, per contro, essi accedono, sia pure entro precisi limiti, ai beni – cibo in abbondanza, case provviste di comfort, abiti di buona fattura, assistenza medica, istruzione, vacanze – un tempo riservati esclusivamente alla esigua minoranza dei proprietari. Inoltre, lo sviluppo tecnologico ha cancellato i due più micidiali flagelli che, periodicamente e spietatamente, colpivano le popolazioni: le carestie e le epidemie. Le carestie – che mietevano vittime a centinaia di migliaia o addirittura a milioni – sono state eliminate grazie alla prodigiosa lievitazione della produttività del lavoro. Quanto alle epidemie – ancor più devastanti, se possibile, delle carestie – esse testimoniano che l’inquinamento non è certo apparso sulla faccia della terra con la società dei consumi. Al contrario, ha una lunghissima storia. E’ iniziato con la domesticazione degli animali che ha generato i peggiori killer dell’umanità. Per secoli e secoli, anzi per millenni, le masse proletarie sono vissute in condizioni igieniche spaventose e in ambienti infestati da terrificanti agenti di morte che solo la moderna scienza medica è riuscita a sconfiggere. Né è tutto. Si deve alla Seconda rivoluzione industriale l’eliminazione del lavoro minorile come della mortalità infantile, che tanti atroci dolori procurava ai genitori; e si deve altresì il prodigioso prolungamento della vita media, passata da 40 a 80 anni. In aggiunta, la spettacolare crescita delle risorse materiali ha reso possibile la cancellazione dell’analfabetismo e – grazie alla creazione delle università di massa e all’abbattimento del costo dei libri – la democratizzazione della fruizione dei prodotti spirituali dell’alta cultura (filosofia, letteratura, arti, eccetera). Infine, sono stati universalizzati i diritti (civili, politici e sociali) attraverso l’allargamento del perimetro borghese dello stato liberale, nato classista e democratizzato dalla energica azione dei “moderni tribuni della plebe” (sindacati e partiti socialisti). Tutte cose strettamente legate all’uso massiccio delle macchine e allo sfruttamento intensivo di fonti di energia (il carbone, l’elettricità, il petrolio) che le società preindustriali ignoravano. Così l’economia ha cessato di essere un gioco a somma zero ed è diventata un gioco a somma positiva; ossia, un gioco grazie al quale gli enormi profitti degli imprenditori di successo sono accompagnati, di regola, dagli incrementi dei salari reali e dalla moltiplicazione delle chance di vita.

 

Tutto ciò ha reso possibile quella che Talcott Parsons ha descritto come la transizione dal “modello della sudditanza” al “modello della cittadinanza” che ha generato un demos munito di voice e, per ciò stesso, sempre più esigente. In tal modo, è nata – attraverso una infinita teoria di conflitti d’interessi e di valori, di tenaci lotte per l’emancipazione degli esclusi, di innovazioni e di esperimenti di varia natura – la moderna civiltà dei diritti e delle libertà. Nella quale grande è stato anche il progresso morale. Basti pensare che oggi ci riempiono di orrore la tortura e le feroci sanzioni con le quali venivano puniti i ribelli, i criminali, gli omosessuali, le streghe e gli eretici.

 

Sennonché, i “nemici dell’occidente” non si limitano a chiudere gli occhi di fronte agli evidenti progressi – materiali e morali – realizzati dal processo di modernizzazione; si prodigano, con un impegno degno di miglior causa, per farci credere che l’opulenza di cui godono i cittadini del mondo occidentale sia da ascrivere alla natura predatoria del capitalismo, descritto e stigmatizzato come un parassita che si nutre del sangue altrui. Nulla di più contrario all’evidenza storica. Gli straordinari risultati economici della Seconda rivoluzione industriale sono la diretta conseguenza della istituzionalizzazione della sinergia fra il mercato, la scienza e la tecnologia. Secondo calcoli attendibili, fra il 1820 e il 1980, nei paesi industriali più dinamici, la produttività del lavoro è aumentata di ben 20 volte e il prodotto pro capite di 13; contemporaneamente, le ore di lavoro in un anno sono passate da 3.000 a 1.700. Per di più, la meccanizzazione dell’agricoltura ha ridotto ai minimi termini la classe contadina, che nelle società preindustriali costituiva la stragrande maggioranza della popolazione attiva. E questo perché, mentre in passato un contadino era in grado, con i suoi primitivi mezzi di produzione, di sfamare a malapena 2 o 3 persone, oggi – avendo a disposizione il trattore, la trebbiatrice elettrica, l’irrigazione automatica, eccetera – ne nutre ben 80. Ciò ha significato non solo l’enorme crescita della ricchezza materiale; ha significato, per milioni e milioni di individui, la liberazione dal lavoro massacrante.

 

Contemporaneamente, si è verificato ciò che Marx aveva genialmente previsto, e cioè che il colonialismo avrebbe operato come “l’inconscio strumento della storia” grazie al quale sarebbero state create, nelle società asiatiche, le premesse istituzionali dello sviluppo delle forze produttive, senza il quale l’emancipazione delle classi proletarie sarebbe stato impensabile. E, in effetti, in gran parte del Terzo Mondo le carestie e le epidemie sono state debellate grazie al catching-up, cioè all’utilizzo da parte dei paesi in via di sviluppo delle tecnologie create dalla civiltà occidentale. Come ha recentemente ricordato il direttore generale della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione, José Graziano da Silva, “grazie al lavoro, fatto sul primo obiettivo del Millennio, l’incidenza della fame sulla popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18 all’11 per cento. Nello stesso periodo oltre 200 milioni di persone sono uscite dalla fame”. Dal canto suo, Geeta Rao Gupta, vicedirettore di Unicef, ha sottolineato la drastica riduzione dei decessi dei bambini sotto i 15 anni, passati da 13 milioni a 6 milioni, mentre coloro che vivono con un dollaro al giorno sono scesi dal 55 al 25 per cento del totale.

 

Naturalmente, le tremende condizioni di vita di questi ultimi indicano che siamo ben lontani dalla universalizzazione dei beni prodotti dall’occidente. La strada da percorrere è ancora lunga, se vogliamo prendere sul serio la cultura dei diritti che è alla base della civiltà in cui e di cui viviamo. Ce lo dimostrano i dati forniti dal World Institute for Development Economics Research: oggi il 50 per cento dei poveri dispone di appena un centesimo della ricchezza mondiale, mentre il 10 per cento più abbiente ne possiede l’85 per cento e l’1 per cento più ricco il 40.

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