Ermanno Rea raccontato da Dudù
Roma. “Con l’andare del tempo ci vedevamo alla tavola di amici comuni a Roma, spesso da Giosetta Fioroni, a via delle Zoccolette, in quella casa nella quale Giosetta dipingeva mentre Goffredo Parise scriveva e scriveva, chiuso nell’appartamento di piazza Igea, piegato sui suoi fogli anche per otto, dieci ore”. E dallo sguardo del novantaquattrenne Raffaele La Capria, mentre seduto nella sua poltroncina di cretonne ricorda Ermanno Rea, lo scrittore scomparso ieri notte a ottantanove anni, sembra passare tutto un intreccio, un insieme di cose udite, viste, vissute. “Via delle Zoccolette…”, mormora come sovrappensiero, “un nome strano”, aggiunge con improvvisa allegria. “Ma d’altra parte Roma, come tutti sanno, è città di topi e di Papi. Ed è proprio a Roma che io e Rea, due napoletani e quasi coetanei, allacciammo un’amicizia lieve, piena di rispetto e di considerazione, eppure mai calda, forse per questioni di carattere, d’indole, di cultura… Rea è stato un grande scrittore della sinistra militante, sebbene alla fine la sua militanza negli anni della maturità sia sempre stata marginale e mai organica. A me invece della sinistra, dell’impegno politico, non me ne è mai importato nulla”. E da ragazzino, Rea aveva fatto il “partigianello”, come si diceva allora. Uno strano, singolare luogo quello dove passò i suoi vent’anni, appena finita la guerra – il Pci, l’Unità, Napoli occupata dagli americani; e poi gli scugnizzi, gli sciuscià di Rossellini e di Malaparte, gli intellettuali e la plebe, e le rotture e le passioni, e gli addii e i ritorni, e le speranze, dunque una prima vita di cronista impaziente nella redazione dell’Unità in Angiporto Galleria e su via Toledo, e poi “quella notevolissima capacità d’inchiesta sul campo”, ricorda La Capria, “accompagnata a una straordinaria qualità di scrittura”, fino al successo letterario, alla consacrazione in tarda età, a sessant’anni. “Quando lui pubblicò il suo primo libro io avevo già vinto lo Strega”, ricorda La Capria. “Ma ‘Mistero napoletano’ è un libro bellissimo”, scandisce. E cos’è rimasto a Napoli oggi? “Poco”. Roberto Saviano. “L’ho letto. ‘Gomorra’ ha avuto la sua importanza, poi col tempo lo si è giudicato con un po’ più di freddezza”. E’ la scrittura impegnata, politica. “Lei dice? Come Rea? Ma Rea non faceva la morale, né conosceva l’invettiva”.
E allora La Capria, con sorprendente naturalezza, come fossero parole che ha già tutte in testa, che gli pulsano come vene, dice che Rea “era un uomo pacato, riflessivo, che aveva un rapporto misurato e cauto nei confronti delle parole e della scrittura. E poi, come tutti gli uomini intelligenti e davvero colti, era anche pieno di dubbi e d’incertezze. Non distribuiva sentenze né verità assolute, malgrado fosse impegnato, serio, anche troppo. Talvolta questo suo impegno, questa sua idea politica del ruolo dello scrittore, forse un po’ m’irritava, in fondo in fondo”. Ma andavate d’accordo? “A me piaceva la qualità della sua onestà intellettuale, la rispettavo pur da una posizione più scettica, forse ironica. La verità è che io sono uno che spesso non si trova d’accordo nemmeno con se stesso, nemmeno con le mie idee. Di Ermanno Rea ammiravo il suo essere di stampo antico, un modo d’essere d’altri tempi, però mai affettato, non recitato, sincero, vero. Credeva alla lealtà nei rapporti umani, alla riservatezza come modo di condursi nella vita, all’onestà come principio e motore dell’azione. Eravamo fatti per non capirci, in tutta evidenza, ma ci rispettavamo”, dice lui che, pur essendo stato amico di tanti scrittori e sceneggiatori e registi e attori di sinistra, e impegnati, come Francesco Rosi, Filippo Patroni Griffi, Moravia e Ghirelli, è sempre stato poeta dei sentimenti e delle minuzie, “della logica elementare”, come dice lui stesso. “Mi sono sempre ritratto con afflizione dal discorso politico e impegnato, ma ne so riconoscere la qualità, quando la vedo. Ed essere uomini morali non significa essere moralisti”.
E Rea stava proprio lì, in questo fermento e in questa qualità, dice La Capria, a metà tra la letteratura e il giornalismo, tra la cronaca e il sogno, tra la realtà e la fantasia più vera del vero. Con “La dismissione”, il suo romanzo del 2002, raccontò il dissolvimento di un’intera fabbrica, l’Ilva di Napoli, con l’ex operaio Vincenzo Buonocore che smonta pezzo per pezzo l’acciaieria che sarà venduta ai cinesi: pezzo per pezzo, dunque vita per vita, “lo sbullonamento di un mondo morente”, ricorda La Capria. L’inferno della dimenticanza, dell’irrilevanza sociale, quello stesso purgatorio del modernariato che ritorna in un altro suo libro, “Napoli ferrovia”, il riapprodo di Rea nella sua città, Napoli, ma nella sua parte più segnata dall’abbandono e dal degrado, con il protagonista, lo scrittore, che vaga tra piaghe che gli appaiono più eterne che mai. Una miseria che non si trasforma in picarismo, ma a tratti fa paura, in cui non c’è quasi niente del mito plebeo napoletano, quello stadio farraginoso ma purgatoriale della civiltà occidentale, quel moto per assurdo che produceva disfunzioni tipiche e uniche nei film di Vittorio De Sica. Forse allora Rea anticipava lo stile di “Gomorra”, l’inchiesta che si fa romanzo o il romanzo che si fa inchiesta? “Ma no”, risponde La Capria, con franca scorrevolezza. “Guardi, è il tono, principalmente, che allontana Saviano da ogni parallelo possibile con Rea, che pure applicava la tecnica del giornalismo alla letteratura o forse applicava la tecnica della letteratura al giornalismo…”
[A proposito, era uno scrittore o era un giornalista, Ermanno Rea? “Era uno scrittore”. E qual è la differenza? “Lo scrittore cerca qualcosa che duri nel tempo. E nei libri di Rea ci sono alcuni personaggi che lui ha descritto e individuato per primo, collocandoli in una situazione culturale e politica che altri non avevano individuato”]
“… Rea non cercava l’indignazione”, riprende La Capria, “l’indignazione è una virtù passiva, alimentata esclusivamente dai vizi altrui, e che si trasforma fatalmente in un’abitudine, in un riflesso condizionato, pericolosissimo”. E così, con un movimento cauto delle mani, ma senza perdere il suo sguardo dolce, e senza quasi soluzione di continuità con le sue parole, La Capria sembra voler mostrare dove portano l’indignazione e l’invettiva, e quanto questo trasloco della ragione dalla testa allo stomaco, dal cervello alle viscere, possa abbassare il tasso di civiltà e di buon senso, “la pacatezza espressiva viene dal temperamento di una persona che questi sia o no uno scrittore”, dice, “ma deriva anche dalla sicurezza che lo scrittore, o il giornalista, ha dei propri mezzi espressivi e della propria cultura. C’è chi, per manifestare le proprie idee, assume l’aria agitata di un sacerdote acceso di fanatismo e di verità assolute, che parla per sentenze e frasi incontestabili. Guardi, io non ne posso più di questo tipo di persone, di questo genere di letteratura. E quanta ne abbiamo avuta! Mi dà fastidio. Che ci posso fare?”. E chissà se è anche di Saviano che sta parlando adesso.
Sul tavolino da caffè, in cima a una pila ordinata di volumi, proprio di fronte alla poltrona su cui è seduto La Capria, spicca un pamphlet intitolato “L’amicizia è la vera patria”. Sono le lettere che Stefan Zweig e Joseph Roth si scambiarono a partire dagli anni Trenta, mentre la guerra mondiale, dal quartier generale di Hitler, iniziava a stendere i suoi neri tentacoli su tutto il continente europeo, mentre i due scrittori soffrivano l’asprezza del nuovo clima intellettuale imposto dal nazismo. “Quelle lettere sono la testimonianza di un’amicizia vitale tra due uomini tra loro molto diversi anche per carattere”, dice La Capria, che intanto forse pensa a se stesso e a Ermanno Rea, “e a tutti gli amici della mia generazione. Un mondo che sta scomparendo o forse è già scomparso. Amici senza i quali io non sarei quello che sono”.