La scrittrice Lionel Shriver (LaPresse)

Una scrittrice contro gli analfabeti della “diversità culturale”

Giulio Meotti
La scrittrice americana Lionel Shriver ha scioccato il pubblico del Brisbane Writers Festival, rinomata kermesse letteraria australiana: ha protestato contro la moda che infesta la letteratura contemporanea. Si chiama “appropriazione culturale”, ed è il dogma che impone a scrittori e artisti di trattare coi guanti bianchi le minoranze etnico-sessuali.

Roma. In un saggio del 1988 intitolato “A Comparison of Teaching Styles”, la futura first lady Michelle Obama accusava di razzismo il re del legal thriller Scott Turow perché perpetuava “l’immagine dell’uomo bianco dominatore che trae piacere a umiliare”. Da allora, la “paranoia razziale” di cui parla in un libro John L. Jackson ha infestato e atterrito la letteratura. La scrittrice americana Lionel Shriver ci ha messo del suo per scioccare il pubblico del Brisbane Writers Festival, rinomata kermesse letteraria australiana. E’ salita sul palco, dove ha tenuto il discorso di apertura, sfoggiando il sombrero proibito nei campus dell’East Coast. Voleva protestare contro la moda che infesta la letteratura contemporanea. Si chiama “appropriazione culturale”, sembra una malattia, è invece il dogma che impone a scrittori e artisti di trattare coi guanti bianchi le minoranze etnico-sessuali.

 

Così la pop star Iggy Azalea è tacciata di “crimini culturali” per aver imitato i rapper afroamericani. O il Museum of Fine Arts di Boston è accusato di “razzismo” per aver invitato il pubblico a provare il kimono indossato dalla moglie di Claude Monet, Camille, nel dipinto “La Japonaise”. Il museo allora si è limitato a far osservare il kimono. Ma non sazi, i “poliziotti culturali”, così definiti sul Washington Post, hanno allora accusato il museo di “sguardo orientalista”. Lionel Shriver si è vista censurare il discorso sul sito del Festival, bacchettata ufficialmente dagli organizzatori, “avvicinata” da manifestanti molesti e boicottata dagli scrittori presenti in sala. Shriver era già stata attaccata per il suo nuovo libro, “The Mandibles” (il Washington Post ha bollato come “razzista” il romanzo, una distopia sulla bancarotta dell’America nel 2029).

 

Dopo il discorso, Shriver è stata aggredita da un uomo che le ha urlato: “Come si permette di venire nel mio paese a offendere le minoranze?”. L’organizzatrice del Festival, Julie Beveridge, ha biasimato Shriver in “una sessione di repliche”, in cui un manipolo di scrittori che si portano bene hanno attaccato l’impertinente americana di turno. Yassmin Abdel-Magied, romanziera musulmana, sul Guardian ha spiegato perché se ne è andata dal Festival dopo aver udito le prime parole di Shriver. “Odio deludervi gente, però non parlerò di ‘comunità e appartenenza’, ma di ‘romanzo e identità’”, recitavano dunque quelle prime righe. “Il tipo di narrativa che ci è ‘permesso’ rischia di diventare sempre più circoscritta.

 

Oggi non avremmo ‘Sotto il vulcano’ di Malcolm Lowry. Né i romanzi di Graham Greene”. E ancora: “Mi auguro che il concetto di ‘appropriazione culturale’ sia una moda passeggera. Sostenuti niente meno che da Lena Dunham, gli studenti dell’Oberlin College in Ohio hanno protestato per la presenza di ‘cibo culturalmente appropriato’, come il sushi, nella loro sala da pranzo. Allora un nativo del Nord Carolina dovrebbe vietare il barbecue ai thailandesi”. Shriver ha parlato di tendenza “voyeuristica, cleptomaniacale e presuntuosa”. La scrittrice ha anche detto che “essere asiatico non è un’identità, essere gay non è una identità, essere sordi, ciechi, o in carrozzina non è una identità, né lo è essere economicamente svantaggiati”.

 

Non basterà l’accusa di “appropriazione culturale” per archiviare i Dwm, “Dead White Males”, i grandi scrittori maschi, bianchi e defunti. O censureranno anche i dipinti di Picasso e Matisse ispirati dall’Africa? E perché non le opere “orientaliste” di Puccini, come “Madama Butterfly” e “Turandot”? Perché come ha detto di recente Harvey Mansfield a Harvard, abbiamo assistito a questa strana evoluzione: la “diversità” prima è diventata “multicultura”, poi “monocultura”, infine analfabetismo.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.