Padri
L'invidia di Camurri per la madre lucertola
Descrizione della situazione in cui mi trovo mentre sto per scrivere questo articolo che mi è stato chiesto sul mio essere padre e dove ho tutte le intenzioni di mostrare che sono un buon padre, eccetera: sono le tre del pomeriggio, fuori c’è un grande sole, un caldo atroce, in salotto le mie due figlie (sei e quattro anni) guardano un cartone, venti trenta principessine sono sparse sul pavimento tra alcuni mattoncini di lego (ahi ahi, cammino scalzo) prima di raggiungere il computer posato sul tavolo dove ho trovato una buccia di banana, trucioli di matita e un mucchio di peli rossi della gatta (si chiama Ada, da Nabokov, in un momento di spensieratezza letteraria, ma la gatta è una randagia di Casoria trovata su internet) mentre il gatto bianco (si chiama Spilimbergo ed è un sopravvissuto) non è pervenuto anche se mi pare di percepirne il rantolo da sotto il divano. Le mie figlie ora guardano la televisione ma prima mi hanno costretto a un esperimento col piccolo chimico (cristalli col cloruro di rame) che non è venuto e questo è uno di quei frequenti momenti in cui spero e aspetto che inizi la scuola (le mie medie avevano le sbarre alle finestre) non perché utile al progresso civile e democratico, ma perché ci libera per qualche ora dai nanerottoli rendendoceli così più desiderabili quando viene la sera, li riabbracciamo e li riaddormentiamo presto.
Questa descrizione al contorno che ho fatto della situazione in cui mi trovo mentre sto per scrivere questa invettiva che mi è stata chiesta sul mio essere padre e dove ho tutte le intenzioni di mostrare che sono un buon padre, eccetera, va a parare nella rassicurazione che non sono uno di quei padri (e madri) specializzati nell’accollo (cioè mi prendo le mie responsabilità) e che mai e poi mai, perché vi resisterò con tutta la forza che ho (sempre meno), anzi mi aggrapperò strenuamente a quel minimo di umanità che in me deve rimanere a tutti i costi, ecco, mai mi avvicinerò a un altro padre o a un’altra madre, loro in compagnia dei loro figli, io in compagnia dei miei e, senza conoscerli, anzi con la scusa di fare amicizia, per quanto la situazione possa essere disperata, mai accollerò i miei figli a loro sparendo per qualche ora come a me succede sempre più spesso perché evidentemente ho la faccia di quello buono e scemo. Calma.
Io devo avere proprio una faccia di quello buono e scemo se ogni volta, ai semafori coi lavavetri o in treno o in spiaggia coi genitori, ogni volta ai primi finisco col dare un soldo e ai secondi il mio tempo e la mia pazienza. Devo avere proprio una faccia da buono e scemo, come quell’altra volta che tornavo in treno con le mie due figlie da Genova e già a Spezia (dovevamo arrivare a Roma) mi trovavo a intrattenere una terza figlia, tale Maia, che una madre mi aveva accollato sparendo in dissolvenza incrociata sei o sette vagoni più a ovest.
Maia era simpatica, aveva uno zaino pieno di giochi e un sorriso seghettato. La madre era un tipo anonimo come certe lucertole. Si viaggiava. Noto questa mamma e questa bambina con zainone che fanno su e giù per i vagoni. Ci vedono. Io sempre con la mia faccia da buono e da scemo. Passano dei minuti. Tre. Otto. Non Saprei. Lucertola anonima e sorriso seghettato ripassano. Si fermano un attimo. Sembrano indecise. Poi spariscono. Passano altri minuti. Tre. Otto. Non saprei. Tornano. E qui il buio. Un tunnel sia metaforico che ferroviario. L’abisso. La madre mi chiede qualcosa che ho dimenticato. Funziona così quando ti ipnotizzano e ti rapinano? Mi ricordo solo: lucertola che ringrazia io che rassicuro lucertola lucertola che sparisce Maia senza lucertola; finisce insomma che mi ritrovo con Maia sul groppone almeno fino a Firenze e le mie due nichiliste felici che giocano con Maia e via dicendo pescando dal suo zaino pieno di giochi.
Maia era adorabile e simpaticona. Ma io non ero suo padre, lei non era mia figlia e sua madre era scomparsa come una lucertola dietro a uno scoglio a godersi il suo bengodi, la conquista della sua solitudine. Il punto non era lei. Il punto era il risentimento, il mio risentimento, e il fatto che io, come padre (o come madre), sapevo che mai sarei stato capace di un simile gesto di accollo che in fondo invidiavo. Insomma, volevo essere la madre lucertola, volevo avere la sua spregiudicatezza, la sua sovranità, ma dovevo accontentarmi solo del mio cattivo umore moralista.
Il genitore specializzato nell’accollo mostra tutta la nostra impotenza di genitori ipocriti, il genitore specializzato nell’accollo esiste solo per umiliarci, si riproduce, fa figli, solo per farci sentire esseri inferiori. Il genitore specializzato nell’accollo è la nostra cattiva coscienza. E’ una figura psichica primordiale come il demonio. La bestia che in noi non riesce a venire fuori, se non sotto forma di un articolo sul mio essere padre dove purtroppo anche questa volta ce l’ho messa tutta per mostrare che sono un buon padre, eccetera.