Il Figlio
Il mio castello
Appena uscito per Mondadori, questo libro racconta ai bambini, e anche agli adulti, quel che può succedere quando il terremoto porta via quasi tutto, anche le parole. Bisogna andare a riprendersele, bisogna trovare un coccodrillo, ma soprattutto un amico. E aspettare che arrivi ancora il batticuore dentro, quello buono, mentre si aspetta di tornare a casa. (Annalena Benini)
Papà mi siede vicino e comincia a raccontare una favola uguale a quelle di quando ero piccolo. Ma proprio piccolo, tipo l’anno scorso. Una favola finta: c’erano una volta un re e una regina che vivevano in un castello di cento stanze…
A che servono cento stanze? Il mio castello ne ha cinque, al terzo piano di una palazzina con l’ascensore. E’ la casa dove abitavamo prima. La parola che usano tutti è prima. Secondo i grandi, prima parlavo e ora non più. Secondo me invece dico tantissime cose, ma in silenzio e non a loro. “Per ora mio figlio non parla con nessuno” dice mamma, e stringe gli occhi per non piangere. Per ora vuol dire che nessuno sa quando finirà. Non lo sa lei e non lo so nemmeno io.
Se chiudo gli occhi, nel mio castello di prima ci sono: la cucina con il vapore che puzza di broccoli, il letto con i giochi da mettere a posto, il bagno che odora di sciampo giallo, le mattonelle color azzurro fiume e il mio portasapone a forma di coccodrillo. Se li chiudo più forte, in bagno ci sono i coccodrilli, in cucina i rampicanti e nella mia stanza la libertà.
Se invece apro gli occhi, trovo il posto dove viviamo per ora e papà che prova a raccontarmi una favola, ma si capisce che non ha voglia. Non possiamo essere tristi. Non ci è permesso, perché siamo ancora vivi. Siamo vivi tutti e tre, anche se hanno chiuso il castello e non ci abitiamo più.
Quella notte che sta tra prima e per ora, la terra ha tremato, la torre ha barcollato e la città è caduta, il castello è stato circondato con un nastro rosso e bianco. Per ora non deve abitarci nessuno. Dove viviamo adesso, una signora ha appeso un lenzuolo con su scritto: BENVENUTI A TENDOPOLI.
Prima mamma si affacciava dal castello e sospirava: “Bello il centro storico, ma da qui vediamo solo un muro”. Mamma fa la fornaia e prima si alzava presto, col buio, per questo non vedeva niente. Io mi alzavo con la luce e vedevo la torre nemica, la finestra con le grate, il cavaliere nero e la sua prigioniera. “Ti sparo!” lo minacciavo. “Ti infilzo, colpisco di spada e ti arrostisco come un vecchio drago, ti faccio a pezzettini, rubo la tuadama e me la porto via”. “Buongiorno, Oscar!” rispondeva il nemico con la barba dalla finestra di fronte. E poi: “Aspetta che sveglio Dulcinea, fate presto sennò fate tardi”. Con Dulcinea facevo colazione ogni mattina, io nella mia cucina e lei nella sua, io con mio papà e lei col suo.
Soltanto io in tutta la classe so che ha lacamicia da notte blu, soltanto io conosco la mano sinistra con cui si stropiccia gli occhi, soltanto io ho visto con quanti morsi finisce il pane al cioccolato e ho contato quanti sorsi di latte le servono per svegliarsi.
A Tendopoli Dulcinea non è mai venuta. Per ora si è trasferita con suo papà in un paese vicino, dai nonni.
Stamattina quando mi sono svegliato la prima cosa che ho visto è stato il muro con il lenzuolo di Tendopoli. Questo muro però rimane muro. Mamma non si lamenta più, attraversiamo la giornata senza che nulla si trasformi e la sera sono stanco.
Da “Casca il mondo” di Nadia Terranova