Padri

Quanta tenerezza i padri so-tutto-io, tatuati e ridicoli ma benedetti

Provo una specie di strana infelicità retroattiva al pensiero che mio padre non mi ha mai portato una bibita mentre giocavo a palline sulla riva del mare, ma mi ha sempre solo strappato alle mie inezie, caricandomi a forza sul Flying Dutchmann per insegnarmi ad andare a vela, o buttandomi nell’acqua alta per impartirmi una lezione di nuoto.
La rubrica "Padri" fa parte dell'inserto Il Figlio, lo speciale di Annalena Benini. In ogni numero un padre racconta di sé, con i figli: storie, sentimenti, pensieri, ossessioni, scoperte. Sono qui disponibili tutti gli articoli.

 


 

Dopo aver letto la bella cronaca di una giornata al mare pubblicata su queste pagine da Annalena Benini ho passato l’estate cercando di fare caso, sulla spiaggia, a questi padri tatuati e moderni e dediti al divertimento dei propri bambini, e in effetti li ho visti, li ho visti eccome, sono anzi, proprio come dice Annalena Benini, la cosa più vistosa e a tratti anche rumorosa delle spiagge affollate. Ovviamente, sono anche ridicoli, a volte addirittura patetici. Molti, quelli più giovani, innestano questa loro esibizione su una incongrua, a quel punto, estetica hipster, fatta di barba curata, fisico asciutto, occhiali da sole, orecchini e, per l’appunto, tatuaggi aggressivi: e così carrozzati li vedi gonfiare canotti, cambiare pannolini, trascinare grappoli di bambini eccitati. Tutta quella loro compenetrazione nel ruolo, in effetti, sembra stucchevole, e soprattutto superflua, perché è ovvio che la bambina mangerebbe la pappetta anche senza che il papà le canti la canzoncina dei Puffi. Però, però, però…

 

Però, insieme a questo rilievo, mi sono sorpreso a farne anche un altro, parallelo e di segno opposto. Che bella cosa è questo fenomeno, pensavo, che enorme passo avanti dell’umanità. Padri che si prendono cura dei propri bambini, in massa, ordinariamente, allegramente, e sapendo con precisione cosa devono fare. Certo, come tutti i fenomeni vistosi ci si ritrova presto a intuirvi, o direttamente a rintracciarvi, esibizionismo, conformismo, o addirittura prono asservimento; ed è pur vero che in questo modo si rischia di tirar su milioni di piccoli ducetti e di piccole tiranne che poi faticheranno a trovare un limite ai propri bisogni. E tuttavia, com’è rassicurante vedere questi padri così compresi in un ruolo che i loro, di padri, non hanno mai nemmeno preso in considerazione. Annalena Benini a un certo punto si chiede dove siano i padri confusi, in queste spiagge, e soprattutto dove siano le madri. Ebbene: i padri confusi non ci sono più, e le madri sono sui lettini, sole, lasciate un po’ in pace, a spippolare sui telefonini. Non è forse un passo avanti, questo?

 

Penso ai nostri padri novecenteschi, penso a mio padre: non mi è forse mancata una che sia una canzoncina cantata da lui mentre mi imbocca la farina lattea Erba? Quel suo splendore duro e scolpito nel marmo, fatto di sole cose importanti, non era forse anche una fuga dalla mia vita di bambino? Oh, io l’ho sempre amato tanto, mio padre, uomo giusto, solido e pieno di passioni: ma si è forse mai dedicato al mio benessere spicciolo, ai miei bisogni stupidi, ai miei capricci? Per quello c’era solo mia madre, dovunque, in città e in villeggiatura, a casa e in spiaggia, e se anche avesse potuto e ne avesse avuta voglia lei non aveva proprio il tempo per chattare al telefonino. Ne ricordo molti altri, di padri come il mio – anzi, erano tutti così. Niente quisquilie. Niente ninne nanne. Solo cose importanti.

 

E però, mentre nascevo con due giri di cordone ombelicale attorno al collo, rischiando di restarci secco e di tirarmi dietro anche mia madre, lui non era lì davanti infagottato in quel ridicolo scafandro verde dal quale io ho visto nascere cinque figli, con la mascherina sul naso e le soprascarpe per non infettare, ma fuori, in sala d’aspetto, a fumare Muratti e a leggere “L’occhio nel cielo” di Philip K. Dick, della collezione di Urania – sul cui frontespizio ha scritto a lapis, perché ovvia-mente era molto emozionato, con la sua calligrafia geometrica, la seguente frase: “Buongiorno, signore e signori. Sto per presentarvi un nuovo amico: la signorina Giovanna o forse no, il signor Alessandro. Ma, attenzione… arriva l’infermiera… ora sapremo… eccola, si avvicina… Signore e signori, è arrivato Alessandro”.

 

Questo suo modo irrilevante di aspettarmi, ignaro, tagliato fuori, in compagnia di sigarette e fantascienza, e soprattutto questa sua nota scritta sul libro, mi hanno sempre ammazzato di tenerezza. Ma ora, devo dire, mi ammazzano di tenerezza anche i padri opposti a lui, come io stesso sono – sebbene meno vistoso, meno tatuato –, che sono stati presenti fin dal primissimo istante di vita dei loro figlioli, che hanno cambiato pannolini, riscaldato omogeneizzati, rifatto lettini, cantato canzoncine e ballato come deficienti per cercare di in-trattenere un rapporto con esseri misteriosissimi che devono ancora accettarli, mentre sono già un tutt’uno con le loro ma-dri. E provo una specie di strana infelicità retroattiva – un’infelicità che non ho affatto provato, sia chiaro, quando ero bambino – al pensiero che mio padre non mi ha mai portato una bibita mentre giocavo a palline sulla riva del mare, ma mi ha sempre solo strappato alle mie inezie, caricandomi a forza sul Flying Dutchmann per insegnarmi ad andare a vela, o buttandomi nell’acqua alta per impartirmi una lezione di nuoto.

 

Sbagliano ora, i padri, ma sbagliavano anche allora. Siamo padri, del resto, come facciamo sbagliamo. Ma così come ho sempre ammirato quel mio padre normativo e timido, che si sarebbe vergognato a chiedere alla mamma come si chiude un pannolino, ora mi ritrovo ad ammirare questi padri so-tutto-io, che si annullano negli istanti di vita dei propri figli sperando, anche solo per caso, di soddisfare una loro vera necessità. Per tutto questo, al ritratto che ne ha fatto Annalena Benini – ironico ma rispettoso, e soprattutto veritiero – mi sento di aggiungere un aggettivo: tatuati, moderni, perfetti, ridicoli, sì – ma anche benedetti.

 

Sandro Veronesi ha dialogato con l’articolo uscito sul Figlio di venerdì 8 luglio 2016

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