Bruce Springsteen in concerto (foto LaPresse)

Quel progetto vincente, sofferto e indifeso che si chiama Springsteen

Stefano Pistolini
Oggi esce "Chapter and verse", il nuovo album del cantautore. Leggere il memoir del Boss, "Born ro Run", tra intermittenze e Cadillac rosa. Chi ascolta le sue canzoni era convinto di conoscere quest’uomo e la sua anima tormentata, le irrequietezze, le disperazioni, le debolezze. Però quest’autobiografia aggiunge dell’altro.

Un tipo con la battuta fulminante come Barack Obama ne sfoderò una memorabile durante la campagna del 2008: “Perché corro per la presidenza? Perché non potrò mai essere Bruce Springsteen”. Allusione al personaggio contemporaneo che più d’ogni altro espone un modello puro di americanità, privo di pretese di perfezione, ma denso di connessioni col passato e il presente della nazione – allorché si tratta di nascere in un posto qualsiasi, di avere una narrativa fatta di occasioni mancate ma poi di cogliere l’opportunità che ti cambia la vita e apre porte che sembravano sbarrate. Nei giorni del 67esimo compleanno Springsteen pubblica la sua autobiografia, che se non denota voli di fantasia nel titolo (“Born to Run”, nemmeno quotato dagli scommettitori), si rivela non banale nella modalità di ricostruzione del suo cammino esistenziale.

 


 

 

Hot off the press... the first copy of Bruce's autobiography #BornToRun, just in time to celebrate the 41st anniversary of the 'Born To Run' album.

Un video pubblicato da Bruce Springsteen (@springsteen) in data:

 


 

La prima domanda è: perché? Magari perché quando si avvicina il momento di fermarsi (non è ancora ora: a gennaio il Boss e la E Street Band partono per un altro giro del mondo), viene voglia di voltarsi a guardare quanto strada si è consumata. O può trattarsi di un bisogno, un desiderio di rivisitare, valutare e decidere. Se per più di metà della vita sei stato quel certo Bruce Springsteen, questo procedimento è normale che si consumi in pubblico, dimensione ormai inevitabile, e anche perché i colleghi che stimi di più, a cominciare da Dylan, hanno fatto lo stesso. Del resto, dal momento che sei tu, la leggenda vivente, a offrire la propria versione dei fatti, pubblico e critica sorvoleranno sui difetti, le lungaggini, le ripetizioni, l’inesausto narcisismo. Se vivi da Springsteen, ogni gesto che compi, ogni cosa che dici, acquista rilevanza, diventa una responsabilità, comunica la vertiginosa sensazione di vivere comunque una vita straordinaria.

 

Ma, si chiede Springsteen insistentemente, al di fuori della luce dei riflettori e dei rituali dello spettacolo, cosa rappresenta questa dimensione della celebrità? Quanto conta? Dà senso a una vita? O ciò che importa è solo lo sguardo allo specchio la mattina, a quella figura che a volte si riconosce a volte sorprende? Ragionamenti, elucubrazioni, un rivoltarsi tra pensieri, ipotesi, illuminazioni e macchie di buio. E’ il mondo del vecchio ragazzo Bruce, il gigante della mascolinità americana, la cui strada per la fama è un classico d’oltreoceano, un conturbante caso dell’outsider conclamato, con poca classe e scarsa educazione al di fuori del giro dei bar della costa, che sale sulla cima del mondo. “Born to Run” è questo: un lungo, frastagliato ruminare. Dedica centinaia di pagine all’apprendistato per le strade del New Jersey e della Freehold blue collar, odiata-amata casa in rovina del sogno americano, col suo skykine di fabbriche e il risuonare del rock’n’roll dalle autoradio. Poi rievoca la scintilla: l’audizione dal supremo talent scout, il produttore John Hammond. Bruce suona un pezzo, Saint in the City.

 

Guarda in faccia Hammond e il santone dice: “Devi venire da noi alla Columbia Records”. E’ fatta. Tutto cambia, via da Freehold, dal New Jersey, dalla mediocrità. Una corsa magnifica, per uno che si sentiva nato per correre. Continuando a inciampare: gli resta addosso il peso di una famiglia complicata, un padre schizofrenico e un rapporto irrisolto. Poi ci sono gli attacchi d’ansia tenuti segreti e, anche per lui, i segni della depressione, la malattia nella testa, soprattutto adesso che è un uomo anziano, placato, che pure ha avuto tutto. Anni bui, a intermittenza, finché non siede davanti a uno psicanalista e a un bel po’ di flaconi di pillole. Il Boss aggiusta gli ingranaggi. E questo libro può essere parte della cura, un fattore della prescrizione: vuotare il sacco, riallineare i punti (anche se ammette: “Non vi ho detto tutto. La discrezione e i sentimenti degli altri non me lo consentono”).

 


Il trailer del nuovo album di Springsteen, "Chapter and verse"


 

Domanda finale: chi crede in Springsteen e lo ascolta era convinto di conoscere quest’uomo e la sua anima tormentata, le irrequietezze, le disperazioni, le debolezze: bastava ascoltare le sue canzoni, le parole con cui racconta la sua storia, a zonzo nella terra desolata. Però quest’autobiografia aggiunge dell’altro. Ce lo spiega lui: “Springsteen” è stato un progetto vincente, ma più sofferto e indifeso di quanto si sia creduto. Ha sempre sofferto della fragilità del poeta e della selvaggeria del bohémien. Il tutto nel corpo del proletario di un posto poco raccomandabile. Provateci voi, pare dire adesso: nemmeno io so come ce l’abbia fatta. Perché non sono mai stato Woody Guthrie. E a me sono sempre piaciute le Cadillac rosa.

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