Fra le conseguenze immaginarie della Brexit c'è il danno alla ricerca. Il cortocircuito a Oxford
Fra le conseguenze immaginarie della Brexit, spicca il danno alla ricerca. Ieri mattina, parlando in radio alla Bbc, la vice-chancellor di Oxford, Louise Richardson, ha dichiarato contrita di non poter garantire che le relazioni del proprio ateneo con le università continentali escano indenni dalla negoziazione con l’Unione europea, e che al momento non ha cuore di esprimere alcun parere se non la propria preoccupazione. Teme che i ricercatori stranieri vadano via da Oxford, o che restino ma senza gli appetitosi finanziamenti europei, o che decidano di tornare nelle loro università d’origine (da cui sono presumibilmente fuggiti) oppure cedano alle profferte delle numerose università europee che sarebbero liete di coprirli di soldi (non si sa quali).
Sono timori vaghi, per quanto giustificati, che però arrivano in un giorno ben preciso: quello in cui Oxford è il primo ateneo britannico che riesca ad arrivare in cima alla tradizionalmente ostica classifica degli atenei del Times Higher Education Supplement. Queste graduatorie lasciano il tempo che trovano ma nella cultura anglofona sono dirimenti, e servono a evidenziare questioni collaterali: infatti Phil Baty, direttore del Times Higher Education, ai complimenti a Oxford ha voluto aggiungere la propria speranza che il governo limiti i danni che la Brexit arrecherà a università e ricerca, onde assicurare che la Gran Bretagna conservi il proprio primato accademico nel mondo. Baty dà fiato a voci su “top academics” cui sono già stati congelati fondi europei, senza scendere in dettagli; così come il Guardian, che ieri ha intervistato una consorteria di rettori anonimi. La lunga inchiesta del quotidiano ricama attorno al timor panico che secoli di primato accademico britannico vadano sperperati in pochi mesi di contenzioso con Bruxelles.
Ma a leggere fra le righe si nota che i rettori, anche i pochi che acconsentono a dichiarare le generalità, propendono piuttosto per una lamentela che alla Brexit associ i tagli ministeriali, frutto di una politica interna indipendente dalla Unione europea. Sorge il dubbio che quest’improvviso attacco congiunto degli accademici possa mirare più al governo che alla Brexit; e il dubbio diventa quasi un sospetto quando, sempre ieri alla radio, Louise Richardson fucila in tre secondi un’articolata proposta che il premier, Theresa May, aveva espresso due settimane fa.
In breve, la May si era data l’obiettivo di rendere il Regno Unito “la più grande meritocrazia del mondo” con un progetto rivolto ai figli di chi non può permettersi di pagare profumatamente scuole private: chiedere alle migliori università statali di creare e gestire scuole pubbliche eccellenti, così da garantire a chi provenga da contesti svantaggiosi una istruzione adeguata a tentare di accedere alle stesse università britanniche, le migliori del mondo. Significherebbe, ha spiegato, “impegnarsi a migliorare il sistema dell’istruzione in modo più efficace che distribuendo borse di studio, che curano il sintomo ma non la causa”. La May non è una visionaria. Il modello è stato già seguito da varie università fra cui Cambridge, che ha istituito addirittura una scuola elementare, facendo apparire fuori luogo la risposta della Richardson: “Quest’idea di metter su scuole locali… siamo un’istituzione globale. Ci distrarrebbe dalla nostra missione”. La missione, appunto: per la May l’esigenza è istruire la patria, per Oxford attrarre soldi stranieri. La Brexit è l’occasione per capire se Oxford sia eccellente a causa dell’immigrazione accademica dall’Europa o se invece siano gli accademici europei che grazie a Oxford possono attingere all’eccellenza.