Le case e i volti degli ebrei di Venezia visti dall'obiettivo di Ferdinando Scianna
Uomini con indosso la kippah e gli scialli rituali mentre pregano in una sinagoga, bambini con cernecchi ai lati del viso che corrono in un campetto, anziani con barbe lunghe e abiti tradizionali scuri che discutono attorno a un tavolo. E’ la vita quotidiana del Ghetto ebraico di Venezia vista attraverso la macchina fotografica di Ferdinando Scianna, uno dei più famosi fotografi italiani, membro della prestigiosa agenzia internazionale Magnum Photos, in cui fu introdotto nel 1982 da Henri Cartier-Bresson. Gli scatti inediti di Scianna sono stati raccolti ed esposti alla mostra “Ferdinando Scianna. Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo”, curata da Denis Curti, presso la Casa dei Tre Oci e aperta da agosto fino a gennaio. Il progetto è stato realizzato su incarico della Fondazione di Venezia in occasione del Cinquecentenario del Ghetto ebraico a Venezia, fondato nel 1516.
La mostra è in pieno stile “street photography”, cioè cattura le immagini della vita di quel quartiere, raccontando i volti e i gesti semplici delle persone, le architetture e gli spazi in cui la gente si muove, gli interni delle case e i luoghi di preghiera. Si assiste quindi a una narrazione per immagini, dove ogni gesto racchiude un preciso significato simbolico, storico e rituale intrinsecamente legato ai luoghi immortalati. “E’ un lavoro originale, proprio ‘fritto e mangiato’, perché ho scattato queste foto tra la fine di maggio e i primi di luglio e la mostra, con catalogo annesso, è stata messa in piedi alla fine di agosto. Si tratta di un lavoro fatto appositamente per questo evento”, spiega al Foglio Ferdinando Scianna.
Le foto sono tutte in bianco e nero e Scianna motiva questa scelta spiegando che si tratta di quella che lui ama definire una “questione linguistica”: “Sono stato dieci anni a Parigi, dove ho imparato abbastanza bene a parlare il francese, però la mia lingua madre rimane l’italiano. Allo stesso modo, la mia lingua in fotografia rimane il bianco e nero, perché è quella con cui sono nato e cresciuto”.
Nelle sue immagini le persone appaiono perfettamente integrate nell’ambiente, in cui sembrano muoversi come personaggi dentro una scenografia teatrale. “Il ghetto stesso è una specie di teatro perché è un luogo piccolo, dove si svolgono vicende quotidiane che io ho voluto raccontare nella loro semplicità. Ma ho scelto di raccontarle sia attraverso l’architettura sia attraverso i volti delle persone. Inoltre, proprio all’architettura ho voluto dare una connotazione abbastanza scura, quasi drammatica”.
Meditazione notturna in Ghetto Nuovo © Ferdinando Scianna / Magnum Photos
Scianna confida infatti di aver provato una certa inquietudine la prima volta che è entrato nel ghetto: la sensazione d’impatto è stata quella di claustrofobia. “Gli ebrei, confinati secoli fa in questo quartiere, non si sono potuti espandere in larghezza, così lo hanno fatto in altezza, costruendo palazzi che arrivano fino all’ottavo piano, che sembrano fortezze, con porte piccole e strette. Il risultato è un’architettura paradossale in confronto al resto di Venezia e l’effetto complessivo è allo stesso tempo affascinante e inquietante. Diciamolo, c’è qualcosa di carcerario in questo posto”.
Scianna però riconosce una contraddizione all’interno del ghetto. Da una parte infatti la vita scorre dolce e normale come in qualsiasi altro quartiere di Venezia, in quella che Scianna definisce “una naturalezza dell’eccezionalità”: bambini che giocano, ristoranti kasher, il museo che attira turisti e anche molta gente non ebrea che vive in quelle case. C’è poi grande vivacità intellettuale tra i membri delle diverse correnti in cui la comunità si divide. D’altra parte però, nota Scianna, ogni pietra di quel posto sembra raccontare una sofferenza passata, da cui il ghetto non riesce a liberarsi: “La quotidianità dell’oggi è sempre carica di rimandi, a volte anche drammatici, al passato”.
Signore vestite a festa per Shabbat © Ferdinando Scianna / Magnum Photos
Per riuscire a cogliere lo spirito del luogo, Ferdinando Scianna ha vissuto diverse settimane tra quelle mura, appoggiandosi a un’amica “che ha lì una galleria fotografica, conosce tutti e mi ha introdotto nella comunità”. E’ stata un’immersione per gradi: “Inizialmente ho fatto dei sopralluoghi per studiare l’ambiente e prepararmi, poi me ne sono andato per una decina giorni per ‘pulirmi gli occhi’, quindi ci sono tornato. Dopo ho fatto quello che fa sempre un fotografo, cioè sono diventato parte dei muri e della vita che si svolgeva tra di essi. Sono stato lì dalla mattina alla sera, cercando di fare come le galline che beccano un granellino qui, un granellino là: ho raccolto singoli episodi per poi costruire un unico quadro, un unico concetto. Ho prodotto scene di vita quotidiana e ritratti di gente comune, come il panettiere che fa i dolci kosher o il rigattiere che vende mobili vecchi. Ho così potuto mostrare i personaggi e gli interpreti di questa rappresentazione teatrale, in cui io ero contemporaneamente dentro e fuori: fuori perché, in qualità di fotografo, ero uno spettatore esterno a quel mondo, ma stando lì un mese, dalla mattina alla sera, ho finito per conoscere quella gente, avere con loro degli scambi e in qualche modo farmi assorbire nella loro vita. Ero fuori ed ero dentro, insomma, e questa è la condizione giusta per raccontare una storia. E’ come se uno raccontasse una pièce teatrale salendo sul palcoscenico, e non rimanendo in platea”.
Racconto è infatti la parola chiave e Scianna ci tiene a sottolinearlo: “Un fotografo di architettura mostra solo edifici, mentre un ritrattista solo persone. Io invece sono un fotografo narratore e i miei lavori sono trasversali. All’inizio gli organizzatori della mostra pensavano a una disposizione scientifica delle fotografie: tutte le architetture da una parte, tutti i ritratti dall’altra. Io però ho detto che così non poteva funzionare: in quei luoghi si muovevano delle persone, avvenivano dei fatti. Non si poteva dividerli così nettamente perché sono tutte singole sequenze di un unico piccolo racconto”.
La parola che invece è meglio non usare quando si parla con Scianna è il verbo “immortalare”. Come dice lui stesso, è un termine abusato, che racchiude in sé la promessa, o quanto meno la volontà, di rendere immortale una scena. Un obiettivo forse eccessivamente ambizioso: “Il ghetto è durato cinquecento anni, dubito che le mie fotografie dureranno altrettanto”.