La stoica attesa dei quadri di Vincent van Gogh nel carcere camorrista
L’uscita dalla chiesa riformata di Nuenen”, immortalata da Vincent van Gogh e oggi ripescata, sottratta al fango camorrista, era la chiesa del padre, il pastore calvinista Theodorus van Gogh. Vincent era il primo di cinque figli. Il piano del padre prevedeva l’allestimento di un atelier nella lavanderia del presbiterio da donare al tormentato ragazzo, ma lui decise altrimenti: invase la casa del sagrestano, due stanze in cui dipinse alcune tele, tra cui i celebri “Mangiatori di patate”. Mentre il pastore calvinista moriva a seguito di una dura lite col figlio, costui veniva accusato dal parroco cattolico di avere ingravidato una ragazza. Un breve scorcio della vita dannata di Vincent van Gogh, dannata e santa. Sono qui, a pranzo da Ilaria e Dudù La Capria, che udendo del benedetto ritrovamento sospira: “L’illusione della vita si può vivere in un luogo senza bisogno di alcun luogo”. Resterei pensierosa, la forchetta per aria, se il risotto non fosse strepitoso.
L’altra tela ritrae la marina di Scheveningen, dipinta due anni prima della precedente veduta, nel 1882. Scheveningen oggi è una frequentata località balneare, popolata di casermoni, casinò, luna park semi-abbandonati; nulla rimane dei fili d’erba gialla graffiati con il manico del pennello e al solitario peschereccio proveniente da chissà dove è sbarrata la strada da pontili di cemento dipinti con gli orrendi colori standard dell’arcobaleno. Sospira Dudù: “Lo stile si può imitare, l’arte no”. Nemmeno il pesce che ho sotto gli occhi, credetemi.
Che si saranno detti i due quadri di van Gogh nel carcere camorrista? Nulla, stoicamente avranno atteso la loro liberazione, che li riconsegni al museo di Amsterdam; il loro ritrovamento è di quelli che merita un Te Deum, o un verso di Rimbaud: Elle est retrouvée. Quoi? L’Eternité, quella eternità che è la somma restauratrice dell’arte. Perché il trafugamento di un’opera d’arte suscita tanto orrore in tanti? Per il valore in denaro? Non penso, penso piuttosto che ciascuno, anche chi mai ha visto quel quadro da vicino e nemmeno da lontano, e forse nulla sa del suo autore, avverte tuttavia una fitta al cuore, come se un pezzo di sé fosse stato violentemente asportato. Anche in chi non ha avuto tempo o desiderio di guardare le grandi opere e non distingue un Picasso da un Rembrandt, tuttavia può all’improvviso, proprio per quella traumatica lesione, sorgere un amore patrio che non si ferma ai confini ma va oltre, perché van Gogh, colui che in vita era nessuno, da quando è morto è di tanti, di tutti. E suona blasfemo compiangerlo d’essere morto quando i suoi quadri cominciavano a essere adorati, come se lui non avesse potuto godere quel che gente senza anima invece ha potuto. L’arte per prima è amata da chi la fa, è invidia pensare che van Gogh o Leopardi o Rimbaud fossero infelici, loro che a ogni istante conobbero la divinità e se ne bearono in un infinito godimento. Solo gli invidiosi possono pensarli tristi e solo uomini tristi come i camorristi possono pensare di derubare le opere d’arte, di sottrarle a se stesse quando, invece, ovunque esse siano, brillano nel ricordo di chi le vide e amò, ma anche di chi, guardando le tele pacificamente assise tra due uomini della Guardia di Finanza che protettivi le fanno corona, per la prima volta ne rimane colpito. Gran bella immagine van Gogh tra i suoi salvatori, un altro quadro che suscita il nostro sguardo, la nostra commozione.