La morte è dolce
Lo studio sulla qualità della vita in medicina è una delle ricerche più vivaci di questi anni e conta più di 30.000 pubblicazioni. Si cerca così tanto perché finora si è trovato molto poco. Per misurare la qualità della vita ci sono 300 parametri diversi, ordinabili ma non misurabili. A seconda di come si mettono assieme, offrono risultati contrastanti, perché sono per lo più questionari. Il problema di questi parametri avviene quando si prova a tradurli in cifre: in pratica, esplode un polverone di numeri ognuno con N varianti che nemmeno Google potrebbe processare. Di fronte a questo polverone, una posizione obiettiva direbbe semplicemente: non ci stiamo capendo un accidente. In medicina, la qualità è qualcosa di profondamente irrisolto e difficilmente valutabile: ma questo non significa che sia qualcosa di irreperibile o inesistente, significa solo che non si riesce a acchiappare nella sua interezza.
La zona di fine vita – ma anche la zona di inizio vita, e quindi sarebbe più giusto dire sic et simpliciter “la zona vita”, ma tralasciamo l’approccio “brevi cenni sull’universo” – è ancora una terra molto incognita, che non si può catalogare a forza di big data. Bisogna affidarsi allo strumento primo della conoscenza: l’esperienza. Cicely Saunders ce l’aveva, e veramente grossa. Infermiera, assistente sociale e medico ha fondato il primo hospice in senso moderno, il St. Christopher, e il movimento dell’Hospice Care, gettando anche le basi della attuale terapia del dolore (le cosiddette cure palliative). Era ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, poi elevata a Dama Comandante, membro dell’Ordine al Merito del Regno Unito, 25 lauree honoris causa, migliaia di pubblicazioni e decine di riconoscimenti. Una over the top, insomma, ma lo è diventata raccogliendo i frutti che l’esperienza le ha offerto.
Nata nel 1918 e morta nel 2005, dalle ultime foto sembra una classicissima vecchietta che ha tutto di britannico, tranne gli occhi: molto poco “posati”, vispi, furbetti e felicissimi, senza nessun’ombra di malinconia, un’allegra bambina. E in effetti è una simpatica ragazza che ha vissuto l’incasinatissima e comunissima vita di tutti noi. Iscritta al Society for Home Students di Oxford per fare filosofia, scienze politiche ed economiche, cambia idea allo scoppio della Seconda Guerra mondiale e si iscrive alla Nightingale, un corso durissimo e intensivo che la forma nella meticolosità britannica della cura. Il suo lavoro durante la guerra crea un imprinting assoluto, che manifesta il valore “dell’impegno personale e dell’attenzione ai piccoli dettagli. Spesso succedeva di finire tutto: medicine, bende, acqua… non ci rimaneva nulla, non avevamo nulla da offrire se non noi stesse”.
Era tostissima e bravissima, ma una scoliosi e una vertebra che si sposta le impediscono quasi di camminare e l’ortopedico sentenzia che non potrà mai fare l’infermiera. Per lei è un trauma, ma non molla: torna a Oxford per diventare – almeno – assistente sociale. Il trauma dell’anno dopo, mentre cerca lavoro da neodiplomata, è la separazione dei genitori: il padre esaurito dalle continue crisi isteriche della moglie che minaccia il suicidio, su suggerimento della figlia se ne va. Cicely prende la madre con sé. Tutte queste mazzate non le tagliano le gambe, però la fanno soffrire e cercare di capire cosa fare. Legge i libri di C. S. Lewis e partecipa alla sua Società Socratica rendendosi conto che “ho tutto nella testa, ma non mi è ancora arrivato niente al cuore”. Nella magnifica Cornovaglia, in una vacanza tra amiche che vogliono lavorare sulla Bibbia e pregare (dove non l’hanno invitata perché essendo un tipetto non era proprio la loro tazza di tè: lei però va lo stesso), una non meglio precisata esperienza le fa capire che il Signore risponde e che lui mette le cose a posto. Si converte all’anglicanesimo e con la forza della neofita affronta il lavoro per mostrare a tutti la luce che ha visto senza preoccuparsi di apparire importuna – tipetto era, e tipetto rimane.
C’era luce, mancava il fuoco. Il primo incarico è da vice assistente sociale al Northcote Trust specializzato nel trattamento dei tumori. Lì si innamora e arriva il fuoco. Solo che il suo principe azzurro non ha il cavallo e nemmeno un mantello e non è nemmeno un principe e non ha fede: le regala l’amore e una domanda. David Tasma è un ebreo polacco agnostico – occhi fieri, capelli neri, labbra disegnate e naso a patata – che arriva dal ghetto di Varsavia: è lei a comunicare la prognosi e accompagnarlo. La storia del loro amore corre lungo 25 appuntamenti annotati con 25 frasi sul diario: la più lunga e passionale è “se anche non avrò altro dalla vita, oggi è stato splendido”. L’ultima è “addio”. Il regalo d’amore che ha da lui è più di un figlio, è una domanda: “Non puoi dirmi qualcosa che mi consoli?”.
Lei impara il salmo 130 (129) De Profùndis, l’undicesimo dei quindici Cantici delle Salite che accompagnano la salita dei quindici gradini di accesso al Tempio e l’anima alla libertà e il cuore all’amore, e lo sussurra amorosa tutte le volte che lui chiede: “Dal profondo a te grido, Signore, ascolta la mia voce… l’anima mia ti aspetta, Signore, più delle sentinelle che aspettano l’aurora… perché la misericordia è con il Signore e con lui la redenzione è immensa”. Lo spettacolo d’arte varia di un’innamorata, che scopre che per curare non serve solo tutta la competenza del mondo, ma serve la convivenza totale: se si vuole vincere la guerra contro il dolore, non si può combattere solo il dolore fisico, ma anche quello emotivo e spirituale. David fa pace con suo padre Abramo e mano nella mano con lui va incontro al suo Dio. Di quell’amore e di quel dolore, Cicely scopre di essere rimasta incinta: della scoperta che il protagonista delle cure palliative è il paziente di cui il dottore è una spalla, e della necessità di costruire una casa adatta a questa assistenza. David le lascia 500 sterline (15 mila euro circa) perché “voleva essere una delle finestre. Mi ci vollero diciannove anni per costruire quella casa attorno alla finestra. Ma i princìpi cardine del nostro intento nacquero dalle conversazioni che ebbi con lui prima della sua morte”.
Un paio di giorni dopo, prende il telefono e fa il numero del St. Luke, una casa d’accoglienza per morenti poveri d’ispirazione ecumenica, e chiede di diventare infermiera volontaria dopo il lavoro. Osserva due atteggiamenti: ogni paziente ha un nome e con lui bisogna costruire una relazione; diversamente dalla norma, gli analgesici sono somministrati a orari fissi, non solo quando il paziente lo richiede. Molla il lavoro di assistente sociale e diventa segretaria del dott. Barrett, chirurgo toracico, ma dopo un anno gli dice che sente di dover assolutamente tornare in corsia tra i morenti. Barrett scoppia a ridere: “Ok, ma studia medicina, diventa dottore. Siamo noi che trascuriamo i morenti”. A 39 anni si laurea e diventa ricercatrice in farmacologia per studiare l’attenuazione del dolore nei malati terminali grazie a una borsa di studio che le rende possibile una ricerca sul campo al St. Joseph di Hacknay tenuto dalle Suore della Carità irlandesi, che sono delle assistenti eccezionali ma non sono medici.
I medici sono due generici che vengono due volte a settimana: usano raramente morfina ed eroina endovena, con la grande paura di attivare una dipendenza (che però non sembra un gran problema per un morente), per il resto invitano a resistere e poi se ne vanno. Cicely prova una soluzione diversa: via orale con piccole dose frequenti su oltre 1.000 pazienti, lasciando all’infermiera una elasticità del dosaggio entro un range (perché chi ha la relazione diretta col paziente conosce meglio le esigenze del singolo), gettando le basi della moderna terapia del dolore. I risultati si vedono… in foto! Le foto dei pazienti prima e dopo lasciano senza fiato: persone spappolate dal dolore ed esauste in pochi giorni entrano in uno stato di normalità, ritornando se stesse. La somministrazione regolare di antidolorifici forti come la morfina è una intuizione assoluta: dosi minori, maggiore vigilanza, minore dipendenza. La vita dei malati cambia di colpo. Spesso chi visita l’ospedale, alla fine chiede dove sia il reparto terminali. La risposta è sempre uguale: “L’ha appena visitato”.
Un gruppo di studenti della scuola per assistenti sociali, nel report scrive: “Abbiamo notato: 1) assenza di dolore e di sonnolenza; 2) vitalità e serenità; 3) atmosfera che non sappiamo definire, come se la morte non fosse qualcosa di cui preoccuparsi, ma una specie di ritorno a casa; 4) Integrazione tra pazienti, personale e visitatori, come se non ci fossero barriere, i pazienti sono disponibili e parlano volentieri; 5) semplicità nell’affrontare il dolore; 6) assenza di ideologia fissa come ci si aspetterebbe da un ordine religioso [mini-recall: erano suore cattoliche apostoliche non solo romane ma pure irlandesi degli anni Cinquanta, ok? erano brutte gatte da pelare, come minimo], ma agnostici atei o indifferenti sono incoraggiati ad accettare la morte nel modo più congeniale a loro”.
Cicely porta questo miglioramento alle suore, ma le suore cosa portano portato a Cicley? “Ho scoperto che l’ospedale può essere una casa aperta a tutti, in qualunque ora del giorno e della notte”. Scrive più di 60 articoli sul dolore cronico e sul trattamento della persona nella sua globalità, con un approccio rivoluzionario. I tempi sono maturi, comincia a correre per realizzare quello che sarà il St. Chistopher’s Hospice. Scrive otto pagine: “the scheme” (una casa da 100 posti) e “the need” (i morenti non hanno un posto adatto non solo negli ospedali, ma anche nella medicina: bisogna studiare il trattamento del dolore, formare un’assistenza infermieristica dedicata, creare un posto bello a partire dal letto). Nel certificato di fondazione, prevede che al centro della casa ci sia una cappella, perché Cristo ha condiviso e condivide il buio della sofferenza e della morte, trasformandole: “Non ci sono risposte facili, ci sono molte occasioni in cui solo il Crocefisso ti può sostenere, quando l’unica preghiera è ‘Gesù Salvatore’ e ‘Tu sai’, quando l’unica risposta non è nelle parole ma in una presenza” (“Pensa a Lui”, orazione alla cattedrale di Westminster, 2003).
[Scoccia sempre un po’ dover parlare di queste cose, perché nel nostro mondo quando si parla di fede – l’amore a Qualcuno – si sente subito una vocina cattiva e stronza, dentro, che dice: “Seh, vabbé…”, come se la fede non avesse diritto di esistenza in queste faccende, come se la fede in fondo non avesse niente da dire, o da dare al bene dell’uomo di oggi. Eppure è questo amore che ha dato tutta la benzina a questa donna, che ha rivoluzionato il mondo della medicina riempiendo un vuoto di assistenza e conoscenza e creando uno spazio di accoglienza e amore. Non sembra poco, come contributo – o no? Eppoi la cosa fantastica di questo tipo di gente è che non ti riempie di pipponi edificanti, non chiacchiera, ma è (e poi fa). La questione della presenza di sé e dell’altro è una costante di Cicely, il rapporto con il paziente non funziona mai quando è a senso unico, funziona solo quando è uno scambio: “nella sofferenza e nella lotta c’è qualcosa di più forte, non una risposta, non una spiegazione, ma una presenza”.]
Comincia a raccogliere fondi, a cercare alleati, a creare rapporti che l’aiutano nella sua impresa. Trova tutto (“un gruppo amorfo di amici a cui poter telefonare”) e ritrova anche l’amore. Cicely doveva avere un debole per i polacchi dai capelli neri, perché anche Antoni Michniewicz è polacco dai capelli nerissimi e dagli occhi trasparenti, cattolicissimo, vedovo con figlia e ovviamente paziente. Anche lui muore dopo tre settimane, nel 1960. A questo punto, ci si aspetterebbe di sentire qualche parola edificante e sicura, no? Lei invece si spezza, frantumata dalla sua morte, soffrendo il dolore totale di una perdita. Il sostegno viene da lui, stavolta, e dal “gruppo amorfo di amici” che la sua idea stava creando: “Ho sentito la mancanza di Antoni in modo terribile, ma mi ha dato la carica per perseguire: ho capito in modo profondo cosa vuol dire perdere qualcuno. Ho percepito che avevo il diritto di dire alle famiglie che potevo comprendere come si sentissero”.
La prima paziente dell’Hospice entra nel 1967. Il nome St. Christoph è un’idea della signora Galton, una donna cieca e affetta da paralisi progressiva che incontra la fede nella malattia (non attraverso la Bibbia, che non poteva leggere: “Dio mi risana in modo diverso: mi manda delle persone per farmi stare bene”). E’ lei che vuole San Cristoforo, il santo che portò Gesù Bambino al di là del fiume. La fregatura per san Cristoforo fu questa: era un gigante che faceva il traghettatore e una notte si presentò un bambino chiedendo di portarlo al di là del fiume. Pensò fosse facilissimo, ma più camminava più quel bambino pesava. Quando distrutto lo posò sull’altra riva, il bambino rivelò di essere Gesù ringraziandolo di averlo aiutato a portare il mondo, mostrandoglielo dentro la sua manina. Cicely accetta perché in questa storia c’è l’idea dell’hospice come un posto in cui ognuno compie il suo viaggio, per arrivare al di là del Fiume.
(immagine di Wikipedia)
Il St. Chris è una struttura di eccellenza che unisce la dimensione medica a quella spirituale, ma senza nessunissima forzatura: “Il nostro compito qui è lenire le sofferenze fisiche e mentali in modo che essi possano ascoltarLo perché Egli parlerà loro”. Gli operatori però non devono dare risposte (uno dei criteri per escludere un operatore è sia che abbia tutte le risposte, sia che eviti tutte le domande – non è fantastico?), gli operatori devono dare tempo: “E’ la cosa più importante da donare, è una dimensione dell’anima, non delle lancette. E’ quello che ha chiesto Cristo nel Getsemani: Vegliate con me”. Non bisogna parlare, non bisogna fare qualcosa: prima di tutto, bisogna stare. Poi se c’è qualcosa da dire, bisogna dirla; se c’è qualcosa da fare, bisogna farla; ma tutto quello che si dice e si fa deve essere dentro questo stare con il paziente. Il medico e tutto il personale devono rischiare tutto, condividendo “la nostra comune vulnerabile umanità”.
Il metodo funziona e Cicely diventa una celebrity che gira il mondo come un medico che ha trovato un modo per fare bene il proprio mestiere, per vivere bene la propria vocazione: “Ho cercato di trasformare le cure amorevoli e premurose in cure amorevoli ed efficaci”. Anche in questo periodo della sua vita, non può mancare il polacco. Un giorno compra un quadro, Cristo che placa le acque. Lo appende nell’hospice, lo guarda per qualche giorno, poi scrive al pittore. E, indovinate un po’? Be’, certo, è polacco, ma stavolta non ha i capelli neri e non è ammalato: ha i capelli bianchi e sta benissimo. Dopo essersi scritti per un po’, Marian Bohusz-Szyszko si trasferisce all’hospice come “artista residente” e dopo 17 anni di convivenza nel 1980 si sposano. Staranno insieme fino al 1995, quando lui muore curato da lei al St. Cris. Nel 2002, anche per Cecily comincia il suo passaggio al di là del Fiume scoprendo un tumore al seno. Nel 2005 perde la mobilità e si trasferisce anche lei al St. Cris continuando a scrivere e a rispondere alle lettere, e ammettendo con la sua fantastica sincerità: “Sono stata infermiera e medico, ma la cosa più difficile di tutte è imparare a essere una paziente”.
La letteratura scientifica dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’approccio globale al problema dolore affrontato in tutte le sue dimensioni (fisica, psichica, sociale, spirituale) realizza risultati più efficaci ed efficienti sotto ogni profilo. Il papa emerito Benedetto XVI in un’intervista da urlo sulla questione della giustificazione per la fede (“Per mezzo della fede”, 2016), diceva che “oggi rispetto alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte”. Non è più l’uomo che deve fare il bravo e giustificarsi di fronte a Dio, ma è Dio che deve “giustificarsi a motivo di tutte le cose orrendi presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano”. Insomma, è Dio che deve dare prove di poter rispondere al grido dell’uomo, è Dio che deve provare all’uomo di essere all’altezza dell’esperienza, della vita: Cicely non è una bella prova? Come in ogni articolo che si rispetti, si è rubacchiato qua e là: Cicely Saunders, “Vegliate con me. Hospice Un'ispirazione per la cura della vita”, Edb, Bologna, 2008. Shirley du Boulay, Cicely Saunders. “L’assistenza dei malati ‘incurabili’”, Jaca Book, 2004. Giorgio Bordin, Paola Marengo, “L’abbraccio del Pallium”, Itaca, 2016