Perché la frattura tra chi ha un diploma e chi no è oggi tanto tossica
Milano. “Se date retta agli esperti – diceva Donald Trump in Nevada, a febbraio – non abbiamo alcuna speranza di vincere. E invece stiamo vincendo, vincendo, vincendo, abbiamo vinto tra i giovani, abbiamo vinto tra gli anziani, abbiamo vinto tra i più istruiti, abbiamo vinto tra chi non ha studiato. Io adoro chi ha studiato poco”. La campagna elettorale del candidato repubblicano alle presidenziali americane era appena iniziata, ancora si pensava che la bolla trumpiana sarebbe scoppiata, ma ora che in alcuni stati si è già iniziato a votare via posta di quella frase trionfalistica risuona soprattutto l’ultima parte, che è anche quella che ha dato i frutti migliori: amo chi ha studiato poco. Secondo i sondaggi, Trump è molto avanti rispetto a Hillary Clinton tra gli elettori che non sono andati al college: una rilevazione dell’Abc News/Washington Post mostra che tra gli elettori bianchi che non hanno un diploma Trump batte Hillary 76 per cento a 17. Soltanto quattro anni fa, il cosiddetto “education gap” non esisteva quasi, il voto era più o meno spaccato a metà tra Barack Obama e Mitt Romney.
La stessa tendenza si è registrata nel referendum sulla Brexit in Inghilterra, e non è un caso che molti analisti stiano tracciando parecchi paralleli tra l’esperienza britannica e il voto americano: in entrambi i casi la macchina globale dell’establishment si è schierata da una parte, e questo è piuttosto visibile. Ma c’è il rischio che, come nel caso della Brexit, le previsioni non tengano conto di una fetta di popolazione che non era mai andata a votare o ci era andata poco e che ha deciso invece di presentarsi alle urne per il referendum: quella maggioranza silenziosa di cui parla Trump con fare minaccioso nel Regno Unito si è palesata davvero e ha determinato il risultato (è vero però che i sondaggi sulla Brexit erano più ravvicinati). Anche per quel che riguarda la Brexit, l’istruzione ha avuto un peso. Gli elettori con titoli di studio universitari e post universitari hanno votato al 75 per cento per restare nell’Ue, mentre tra gli elettori senza titoli di studio la percentuale è al contrario: il 73 per cento ha votato per la Brexit. Uno studio della Joseph Rowntree Foundation ha confermato qualche settimana fa che la “educational opportunity” è stata determinante al referendum. In Inghilterra e Galles (la Scozia, si sa, è un caso a parte), molte città universitarie hanno votato per il “remain” in circoscrizioni altrimenti favorevoli alla Brexit. Naturalmente, come nel caso di Trump, ci sono altri elementi decisivi: l’età, la classe sociale, la razza, ma come scrive David Runciman in un lungo articolo sul Guardian, “l’istruzione conta sempre di più”.
Runciman è l’ultimo rampollo di una famiglia di storici, insegna a Cambridge, ha scritto molti saggi politici – l’ultimo, del 2013, s’intitola “The confidence trap” e mostra come le democrazie siano molto brave a riprendersi dalle emergenze ma non siano affatto capaci di evitarle, perché invece che crescere in saggezza crescono in autostima e pensano di essere in grado di sopravvivere a qualsiasi catastrofe, e cadono nella trappola della “troppa fiducia” – ed è convinto che l’education gap sia “più tossico” della più nota divisione tra ricchi e poveri. Le connessioni tra i due temi sono evidenti, e spesso c’è una sovrapposizione enorme, ma non necessariamente chi ha studiato poco è anche povero: Runciman ricorda i tanti piccoli imprenditori che hanno lasciato presto gli studi, che hanno un buon reddito e che votano Trump. Allo stesso modo, molti elettori benestanti della middle class hanno votato per la Brexit, soprattutto nel sud dell’Inghilterra, al di fuori delle aree universitarie. Lo scontro di classe ha un’importanza enorme nella storia politica dell’occidente, ma secondo la teoria di Runciman sulla resistenza delle democrazie, “le democrazie rappresentative si sono dimostrate molto efficaci nel prevenire le lotte di classe. Quando la diseguaglianza va fuori controllo, il sistema fa quel che è nelle sue possibilità per correggerla. E’ costruito apposta per evitare soluzioni estreme guidate dalla rabbia della piazza”. La minaccia dell’education gap invece è più profonda, perché non si riduce soltanto a uno scontro tra “conoscenza e ignoranza, ma è uno scontro tra una visione del mondo e un’altra”, cioè “tra una visione liberale e una autoritaria”.
Ritorna, nel racconto di questa divisione, la celebre frase che l’ex ministro della Giustizia inglese Michael Gove, sostenitore della Brexit, disse durante la campagna elettorale: non fidatevi degli esperti. Il punto di Gove non è tanto che la conoscenza è sbagliata, quanto piuttosto che questa si muove attraverso conflitti d’interesse e “quando la conoscenza diventa un prerequisito per il potere allora non parla più per se stessa – spiega Runciman – Sembra piuttosto che parli a un mondo che possiede già la conoscenza e così smette di essere conoscenza, diventa soltanto un altro segno di privilegio”. E’ in questo momento preciso, quando la conoscenza diventa potere, che viene a mancare una condizione fondamentale: la fiducia. Non mi fido più che tu, esperto, sia in grado di prendere decisioni al posto mio, perché servi interessi che non sono i miei, e che non mi dici. In questo risiede anche la tossicità dell’“education gap”, che si carica di “un’assunzione di superiorità morale”. I più benestanti fanno fatica a far passare la loro ricchezza come una virtù, ma questo non accade con la conoscenza o con la competenza. Hillary Clinton e molti di quelli che non si schierano con lei ma si schierano contro Trump sono l’esatta rappresentazione di questa assunzione di superiorità morale. Così gli ottimisti della Brexit hanno sottovalutato le conseguenze dell’“education gap”, e lo stesso stanno facendo gli ottimisti contro Trump.