Il Figlio
Un giorno perfetto
Cos’è che non funziona? Polvere dappertutto, armadi scombinati, le cose dell’inverno mescolate ai costumi della piscina, questo era mio e stava nel cassetto del figlio piccolo – “si deve essere ristretto nel lavaggio, signora, succede” – e poi le cene tutte uguali, pure sbagliate le associazioni alimentari (carboidrati e proteine sempre insieme, come coniugi di lunga data, a darsi fastidio l’un l’altro e a farsi del male negli stomaci di ognuno). Spegni e riaccendi, mi sono detta, e cerca una collaboratrice domestica come dio comanda. Esisterà. Magari bisogna pagarla un po’ di più, ma vuoi mettere il risparmio in termini di leggerezza del vivere?
Era maggio, e mi sono rivolta a SC, una delle agenzie trova-tate più in voga tra le signore le cui case mi sembravano – senza naturalmente averle viste – mille volte meglio della mia. Mentre parlavo con le super professionali operatrici dell’agenzia avevo negli occhi mensole tirate a lucido, scaffali con le mutande bianche piegate da una parte e quelle nere dall’altra, pomeriggi trascorsi a correggere la pronuncia dei bambini da “bbrecchefast” a “brkfst”, cene a base di purea di ceci e semi di quinoa, e io finalmente sul divano con l’ultimo volume della trilogia di Kent Haruf. Sarà un nuovo inizio, pensavo. Nel frattempo ricevevo i video delle candidate, informazioni sul training che avevano fatto, referenze ottime, e mi dicevo: sono sulla strada giusta.
Finalmente entra in casa nostra Z., una signora dall’aria competente che “se il ferro da stiro è un modello con potenza superiore ai 2750 MW impiego 7 minuti a camicia”. Assicurava massima flessibilità, disponibilità con i bambini (anche dopo averli visti, tutti e tre, pure il maschio piccolo), dieta calibrata con il giusto apporto di fibre – “Le spiace signora se porto con me il frullatore per centrifugare verdura e frutta, visto che lei non lo possiede?”. Nei primi dieci giorni di lavoro, ogni alba riservava una nuova meraviglia: lavaggi in massa di tenda, ruspe negli armadi dei bambini, disinfezione di antri della cucina mai praticati per paura di trovarci esseri animati viventi, cene costruite e variate.
Poi non so, deve essersi stufata, le è sembrata una fatica sprecata, ha come perso la motivazione, e giorno dopo giorno si è fatta irritabile, capricciosa, indolente. “Stasera Z. potremmo fare un risottino e mozzarella e pomodoro, va bene?” “No guardi, stasera frittata”. “Le spiace stirare questa camicia?” “Beh pensavo di stirarla domani che oggi devo lavare i colorati”. Di centrifughe e estratti non ne abbiamo assaggiato neanche uno, in compenso si era impossessata di un ripiano del frigo per mettere le sue cose, facendomi tornare alla memoria le tristi divisioni delle Wohngemeinschaft tedesche, dove ognuno pensava a sé e i piatti sporchi li lavava chi consumava per ultimo. Un giorno mi dice che trovava davvero seccante l’assenza di WiFi alla casa del mare. E dopo aver posato le sue cose sul letto (io in confronto una campeggiatrice), mi ha levato qualsiasi eventuale grillo dalla testa: “Signora, il sabato sera io non mi posso fermare dopo cena perché ho bisogno del mio tempo libero”. Ero già abbastanza provata dall’idea di una distesa di fine settimana da trascorrere lavorando con la prole alle calcagna, quando Z. decide di infierire: “Volevo comunicarle che la prossima settimana ho una tre giorni di yoga a cui non posso mancare”.
E’ stato così che, dopo una serie di mini-sconfitte e di pensieri spiacevoli – lo sfruttamento dei deboli, l’incapacità di stabilire una corretta relazione datore di lavoro-dipendente, i penosi tentativi di alzare la posta promettendo straordinari fuoribusta rigorosamente respinti – una mattina di settembre, Z. si presenta, anziché alle pattuite ore otto, alle più pratiche dieci, fresca di caffè al bar. “Scusi Z., ma così non si può fare”, ho protestato debolmente. “I treni hanno fatto ritardo, e comunque guardi che ho deciso di andare via, aspetto che si trovi un’altra e poi me ne vado!”. A quel punto, con uno scatto da grande felino, il coniuge si è rivoltato ai principi del politically correct, ha accantonato quell’amabile convenzionalismo per cui – ora ricordo – l’avevo sposato, e ha scagliato su Z. frasi irripetibili, il cui senso posso sintetizzare con un: “Visto che non si trova bene, può anche andare via ora”.
Persino i bambini hanno lasciato le loro litigiose occupazioni per godersi il catartico spettacolo di un uomo che, diciamo così, riflette ad alta voce. Terminato lo show, Z. sparita dalla nostra casa, il coniuge si è voltato verso i suoi figli e ha esclamato: “Adesso bimbi, tutti a fare colazione al bar!”. Facili applausi a scena aperta e un incerto domani. I giorni peggiori sono stati i successivi, quando si è trattato di aprire il contenzioso con l’agenzia per tentare di frenare il dissesto domestico in cui stavamo inesorabilmente precipitando. Vista la mia malagestione e la mia scarsa propensione al conflitto, il marito si è impossessato della pratica, realizzando passaggio dopo passaggio quanto pessima fossi stata come negoziatrice, e quanto danno avessi apportato al bilancio familiare per inseguire la chimera della tata (la vita?) perfetta.
L'ultimo libro di Amaltea è “Il mare non chiude mai” (Einaudi super ET)