Bob Dylan, la felicità più perfetta
Dylan ha fatto dei suoi anni, e dei nostri, una formidabile e stridula anticipazione della fine del Novecento, e questo è il suo vero incanto. Il Nobel, lui, se lo merita. Ma forse è il Nobel che non si meritava Dylan.
Hanno assegnato il Nobel a Bob Dylan, boato di entusiasmo in sala, agli svedesi piace la sua espressione poetica nell’ambito della grande tradizione di canto americana. Ho capito, ma non ne aveva alcun bisogno. Dylan, questo ragazzo intensamente ebreo venuto al Greenwich Village dal Minnesota all’alba dei Sessanta, quello che canta il folk e il rock con timbro roco e voce nasale, in un sospetto perenne di stonatura, è da decenni una divinità nel tempo, un poeta classico del livello di Walt Whitman o di T. S. Eliot, ma la sua differenza è la musica, è la forma musicale. Il Nobel come sempre confonde: confonde il mondo di equivoca nostalgia letteralista, rimanda alle generazioni che invecchiano e alle loro guerre perdute, offre risposte che non sono portate dal vento alla domanda su quante strade un uomo deve battere perché tu lo chiami uomo, mette la grandezza non-poetica e non-linguistica del pentagramma, delle note, del canto, del ritmo, sotto il cappello floscio del linguaggio, dei testi, dei lyrics. Per quanto tremendi, desolati, ansiosi e capaci di speranza e amore siano i testi di Dylan, del loro significato e della loro genesi importa poco. Tutti noi delle origini lo abbiamo amato senza tradurlo e forse anche senza capirlo. Nessuno ha mai saputo chi fossero Louise e Johanna in “Blonde on Blonde”, eppure tutti le hanno riconosciute dalla piega, dal tono, dal rimorchio delle sillabe e dallo struscio dell’intonazione nella voce d’incanto del trovatore. Gli sono coevi i Beatles, forse altrettanto grandi, e i loro testi sono sbarazzini, allegri, superficiali, quando non virano decisamente sulla messa in piega (“Imagine”). La poetica di un hobo o di una band non si misura sui versi, contagiosi di amore e disperazione, violenza e viaggio senza fine e senza meta, che è il caso di Dylan, oppure lievi e vanitosi come farfalle, che è il caso magistrale dei Beatles. Nella musica, e solo nella musica, la letteratura incontra il suo limite.
Detto questo per dare al Nobel quel che è del Nobel, che forse non merita Dylan: era ora. Non è questione di emozioni, di ricordi personali, che sono una folla, ingombrano sentimento e giudizio, appartengono alla vita che scorre verso il suo esito, a quello che l’ha nutrita, al mistero di favole e filastrocche e Lieder che l’hanno fatta elettrica, che hanno animato le moltitudini di affetto e sensazione, di pathos e di baci. E dunque vanno esclusi, ricordi ed emozioni, da ogni tentazione dell’impudicizia. Dylan è un musico di strada e ha fatto la sua corsa come una star, una stella fatale e “never-ending”, così come ha battezzato il suo tour sempre in corso, dalle cantine folk ai palcoscenici di tutto il mondo conosciuto. La sequenza delle immagini va dal corpicino indigente dell’adolescente che si vede nei bootleg, nelle registrazioni di contrabbando degli inizi, occhiali scuri, capelli afro-jewish, camicie a scacchi, berretti, armoniche a bocca, chitarre, pianoforti e macchine da scrivere in alberghi di passo a poco prezzo, fino ai solchi del viso invecchiato, all’aureola beatificante del santone da concerto nelle ultime performance: non è mai stato un autore, un maestro di quelli firmati, un capo da portare per qualche stagione. E’ sempre arrivato allo spirito di decenni fatali come una pietra che rotola, come un sasso che cola a picco, come un duro del country che ha perfino la tentazione cristiana. Esplose subito come un vizio venuto dal paese dell’assoluto, un americano dominante nella sua fragilità di vita, di esperienza e di melodie innamorate.
Secondo me Dylan ha fatto dei suoi anni, e dei nostri, una formidabile e stridula anticipazione della fine del Novecento. Questo era il suo vero incanto. A quindici anni dalla fine della guerra che aveva devastato la terra, mentre l’angoscia era quella di dimenticare e passare oltre, questo immenso talento trasmise ai suoi contemporanei l’idea che tutto è passato e che nel passato è il tutto che vale la pena di vivere e di ricordare. Le sue colombe, anche il suo grido ideologico, le sue sospensioni dell’animo nell’incertezza, don’t think twice it’s all right, i suoi uomini tamburino, le sue Sarah, i suoi violini elettrici, la sua lirica mettevano la storia universale dietro le spalle dei baby boomers e di generazioni a venire, ciascuno in ascolto a suo modo, ma elaborandone la futilità, la mancanza di senso, l’infinita tristezza. Alle spalle. Ha cantato l’infelicità del secolo e l’ha seppellita, mentre eravamo appena a metà, in una tonalità che ispirava la felicità più perfetta. E questa desolata malinconia fatta di stile e abbondante di forme musicali gli merita ricchi premi e cotillons, knock knock knock on the Heaven’s door, oltre che il ricchissimo Nobel.