Padri
Amavo loro e odiavo me stesso
Sono il creativo della coppia. Cioè sono quello che crea più problemi, ai due bambini, quando le maestre dell’asilo domandano: “Che mestiere fanno mamma e papà?”. “Mamma è dottore. Papà…”. Io sono il creativo della coppia. Dunque, perciò, sono quello che ha tempo per accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, fare il bucato, stirare, riprenderli, portarli in piscina, giocare con loro, cucinare e poi, a notte, svuotato, scrivere un libro che mi viene malissimo. Da anni. Ma non conta.
I miei figli, di cinque e quattro anni, sono nati nell’attimo preciso in cui avevo iniziato a dubitare di me come scrittore. L’attimo in cui le espressioni contrite dei bancari davanti alla nostra richiesta di mutuo mi facevano intendere cosa volesse dire “scrittore” nel mondo reale. L’attimo in cui, per dei casi fortuiti, avevo scoperto che l’universo di storie con cui mia madre mi aveva cresciuto – la nostra antichissima discendenza albanese, le azioni eroiche antifasciste compiute da mio nonno Ettore – erano tutte sovrumane panzane che aveva inventato per reagire alla vita. E poiché quelle storie erano state proprio il punto da cui ero partito per dire: “Farò lo scrittore!”, e poiché fare lo scrittore mi aveva portato alla miseria, alla frustrazione, alla fame, intorno a quell’epoca mi dissi: “Basta con le storie!”. Il Verbo si tramutò in carne. E fui padre.
Che fosse la causa, o la conseguenza del tutto, il tempo per scrivere, prima, e per rimpiangere la scrittura, poi, si assottigliò man mano. Ma era giusto. Perché – come tutti, ed è qui l’essenza della paternità – mi dissi che questi due bambini non sarebbero caduti nel gorgo da me sperimentato. Perché amavo loro, e odiavo me stesso: ogni scelta sbagliata, tutto il tempo perduto, le pose, le storie. Le bugie che mi avevano infarcito la mente, io le odiavo. Ora sport, aria aperta! Loro erano carne e verità, e di verità e vita presente avrebbero vissuto. Li viziai. Uscii dal mio stanzino fumoso e affrontai il mondo. Solo un punto, da creativo, non potevo evitare: che mia moglie dicesse che toccasse a me scegliere e leggere, o quantomeno narrare, la favola della buonanotte.
Non mi opposi: era giusto. Non temetti: una storia, una favola innocua, era solo uno strappo alla mia regola di tenerli lontani dalla letteratura. Iniziai con le classiche: Cenerentola. Tanto d’occhi: ascoltavano. Cappuccetto e la Bella Addormentata: seguivano. Finito il catalogo, ricominciai Cenerentola. E fu allora che avvenne: “Ce l’hai già raccontata”. Volevano altro. Una storia diversa, per ogni sera. Da me. “Certo!”. Non era un problema da poco. “C’era una volta…”. Pensai. “Un marinaio… oh, cioè, no: un grande guerriero… che doveva tornare a casa…”. Gli raccontai l’Odissea. “Bella! Bella! E stasera?”. “Stasera… c’era, ecco, una volta…”. Gli raccontai l’Orlando furioso.
Questi frammenti di letteratura, di notte, bisogna anche dire che erano belli. Erano privi di pensiero, purissimi. Non c’era affatto l’ambizione, non c’era alcuna frustrazione. Narravo, ascoltavano. Erano storie al grado zero, ed erano tutte collegate fra loro. “Che guerra aveva fatto Ulisse?”. L’Iliade. “E Venere chi era?” La cosmogonia. “Esistono ancora questi dei?”. La Bibbia.
Qualcosa, nel mentre, incominciava a cambiare. Giuseppe iniziava ad assomigliarmi. Era di umore saturnino, aveva piccoli episodi di ipocondria. In compenso, però, durante il giorno interrompeva le partite di pallone – mi costringevo a fingermi esperto: sport, aria! – per farmi domande completamente insensate: “Come si chiamavano le sirene?”, “Dunque, la prima si chiamava Partenope, e, quando morì… MA ORA GIOCA!”. Carletto, il fratello, provava a fare figure retoriche: “Buona come un fulmine! Sono arrabbiato come una lepre!”. E io correggevo: il fulmine non è buono, la lepre non è arrabbiata. Ma avevo il forte sospetto che quella fosse poesia.
La cosa più grave, tuttavia, è che qualcosa prendeva a cambiare anche in me. E quel qualcosa era un fascino, un atteggiamento di sogno che non saprei spiegare bene. Quando, la notte, qualcuno dei due mi chiamava e aveva paura di un drago nascosto sotto il letto, io ridevo: “Non esistono, i draghi!”. Ma poi, per ore, non riuscivo ad addormentarmi, perché temevo che due occhi mi fissassero nel buio. Se raccontavo di Leonida contro i persiani, mia moglie mi diceva: “Basta! Dura da mezz’ora!”. Ma tutti e tre reagivamo: “Non è ancora finita!”. E narravo. Oggi ho il sospetto che i miei figli abbiano in mente che la mia funzione principale, in casa, sia quella di raccontare storie. Racconto, alle volte, del loro eroico bisnonno Ettore, della nostra antichissima discendenza albanese. E quando la vita mi delude – oh, sì, ma certo: come sempre – riprendo il filo di quelle storie continue. E anche se a volte Giuseppe e Carletto mi sembrano persi, svagati, distratti, e l’altro giorno ero triste, il grande mi ha detto: “Vieni, papà. Ti racconto una storia”. E ho avuto voglia di salvare un po’ tutto.
Errico Buonanno è scrittore e autore televisivo e radiofonico