Dario Fo, soccorso rosso
Roma. Di lui ha dato la più bella definizione nel 1977 Carlo Casalegno sulla Stampa: Dario Fo aveva “la patetica certezza di fare dell’alta cultura ‘impegnata’”; era uno che “proclama che il popolo non è soltanto lo specchio di tutte le virtù, ma anche la fonte della verità storica”; uno di “quegli intellettuali di sinistra che mentono di proposito per faziosità, nascondendo o alterando i fatti com’è abitudine corrente nella cultura ufficiale sovietica”. Dario Fo fu molte cose ma tra le cose che fu ce ne sono due che oggi troverete poco raccontate sui giornali: la doppiezza morale e la connivenza ideologica. Un catechista della rivoluzione la cui “commedia dell’arte” strizzava l’occhio alla brutalità politica. Quando nel 1990 Fo lanciò il manifesto “Per un vero rinnovamento del Pci”, Antonello Trombadori lo definì “addetto alle salmerie del ‘soccorso rosso’”. Un ruolo che Fo ricoprì per tutta la vita. Da repubblichino a Salò, salvo dimenticarselo invocando la Liberazione, e negli Anni di piombo affiancò quella cultura i cui eccessi assunsero connotati di terrorismo.
Fo allestiva spettacoli, come hanno scritto Carlo Fruttero e Franco Lucentini, “in cui il Nobel fece scoppiettare più d’una allusione assai benevola alla stella a cinque punte delle Brigate Rosse”. E ancora: “Non uscì mai dalle sue labbra una sillaba di condanna per i gulag, né mai un sospiro a favore dei suoi colleghi scrittori perseguitati dai comunisti. Entusiasmò Fidel Castro. Ricevette una pioggia di onorificenze e attestati da ogni risma di tiranni rossi”. A teatro, Fo, tra le altre cose, fece sue le massime di Mao. Nel 1971, presentando “Morte e resurrezione di un pupazzo”, citò il “teatro rivoluzionario” delle Guardie rosse: “Le arti drammatiche hanno una grande importanza nella lotta che oppone nel campo della letteratura e dell’arte il proletariato alla borghesia. Da noi c’è una divisione netta fra concetti come bene, moralità e rapporti di produzione”.
“In Cina invece il mangiare, il bere, il vestirsi, i princìpi morali sono un tutt’uno. C’è una concezione profonda della vita che determina tutto quanto. C’è l’uomo nuovo perché c’è una filosofia nuova?”. Di nuovo il suo teatro aveva ben poco. Sempre il solito copione, sintetizzato così da Fruttero e Lucentini: “I ricchi, i padroni, gli sfruttatori, i preti, gli americani, la polizia, il capitalismo, e per contro la sacrosanta ribellione dei proletari, dei poveri, degli oppressi”.
Nel 1997 Fo fu attaccato dalle vittime spagnole dell’Eta, i terroristi baschi. “Come vittima, dubito dell’intelligenza di Dario Fo, che farebbe meglio a tacere”, disse Juan Antonio Corredor, il segretario dell’associazione che rappresenta le famiglie degli 817 morti, tra cui 26 bambini, causati dal terrore basco. Lo scrittore aveva criticato le condanne di alcuni membri dell’Eta.
"Resistenza: parla il popolo italiano e palestinese” è il testo che Fo mise in scena nel capannone del circolo La Comune-Nuova scena di Milano, mentre in Europa i terroristi palestinesi praticavano la “resistenza” contro sinagoghe e aeroporti. Nella commedia di Fo, al Fatah stava alla guerra palestinese come la Resistenza era stata alla guerra di liberazione italiana. Per Fo, il combattente palestinese era il “nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba”. La presenza in scena di attori italiani e palestinesi dimostrava, visivamente, come il proletariato italiano e i palestinesi fossero “uniti in scena da un comune impegno di lotta”. Al termine dei suoi spettacoli raccoglieva fondi per la “causa palestinese”.
C’era qualcosa di avvilente anche nei suoi attacchi agli avversari. Come quando a Firenze i coniugi Fo aizzarono la folla in piazza contro Oriana Fallaci, apostrofata in massa così: “Lercia terrorista, lercia terrorista”. Il giorno dopo il crollo delle Twin Towers, Fo disse: “La belva feroce del capitalismo affondava felice i suoi denti nelle carni dei morti e fortune luminose si sono costruite in poche ore. E non c’è da stupirsi. I grandi speculatori sguazzano in un’economia che uccide ogni anno decine di milioni di persone con la miseria, che volete che siano ventimila morti a New York?”. Ricordava un altro maestro del teatro, Bertolt Brecht, per il quale di fronte a Hitler era un crimine anche solo scrivere versi sulla bellezza dei meli in fiore. Salvo poi giustificare ogni nefandezza del socialismo reale. Per lui fu coniato un termine: “Salonbolschewik”. Potrebbe suonare bene anche per Dario Fo.