Linus svela il passaggio dall'èra della conversazione a quella della condivisione
E forse, senza fare troppa sociologia ma un po’ di ironia sì, il mondo passa dalla “società della conversazione”, quello elegante e riflessivo descritto da Benedetta Craveri nell’omonimo libro, quando cioè nei salotti di Parigi “si cristallizzò l’ideale della più oziosa, spregiudicata ed esigente civiltà europea”, un posto dove si parlava tra diversi, alla società della “condivisione”, cioè al mondo dei pollici sollevati di Facebook e di Spotify, dove non solo ti vengono segnalati gli amici (che sono sempre amici di amici, gente della tua tribù che la pensa come te, secondo quello che gli etologi chiamano pseudospeciazione), ma un posto dove anche le notizie sono quelle che rassicurano le tue inscalfibili idee, dove persino la musica è quella che già ti piace e piace a quelli cui piaci, e dove forse tutto ciò che invece non è condivisibile, e dunque non ti piace, è di conseguenza inaccettabile, e va ignorato, se non distrutto. Una specie di sottosopra, un ribaltamento del codice della libertà, un terremoto culturale, oltre che un assurdo.
Per evitare le aggressioni verbali “ti metti a cercare un modo per raccontare cose che siano impermeabili alle rotture di scatole. Ma se cominci a togliere materie e temi, inevitabilmente ti rintani, costruisci uno spazio di sopravvivenza”. E con queste parole affidate a Ernesto Assante, mentre spiegava le ragioni che lo hanno convinto a chiudere il suo blog, Linus, che è il più sorgivo creatore di radio che l’Italia abbia conosciuto negli ultimi anni, il padre e il motore di Radio Deejay, proprio lui che vive di parole, ieri ha consegnato a tutti noi un documento non privo di aspetti inquietanti, e tuttavia illuminante, sulla vita ai tempi dell’obbligo della condivisione, laddove parlare, cioè esprimere un pensiero, “diventa pericoloso perché ti butti in pasto ai barbari, metti te stesso in mezzo a una giungla dove ci sono certamente una maggioranza di persone che commentano e rispondono in maniera civile, ma dove ci sono anche quelli che a priori ti devono dire le cose in una certa maniera, rovinandoti l’esistenza”.
E quella di Linus non è soltanto un’implicita difesa della mitezza: lui molla internet perché a un certo punto, nel suo blog, si è sentito obbligato a scansare l’attualità (per scansare gli insulti), perché a un certo punto si è sentito costretto a essere asettico, vago, intimista, e in definitiva vincolato a non dire più nulla, a non esprimere nemmeno le sue opinioni, pur di non andare contro pelo, pur di non infastidire chi non la pensa come lui, per non essere “incondivisibile”, riecco la parola. E così Linus si è quasi trasformato in uno di quei personaggi di Pirandello, nella nemesi di se stesso, in Serafino Gubbio operatore, che non lavorava alla radio ma al cinema: “Io mi salvo, nel mio silenzio, col mio silenzio”.
Eppure, insegnano i padri della dialettica, il progresso nasce sempre da un suono, da una stonatura, da una stecca, da una voce discorde che improvvisamente esce fuori dalla partitura e va per conto suo: ecco che l’orchestra si ferma, magari un violino protesta, un timpano grida, ma la vecchia canzone s’interrompe, e poco a poco il testo di una nuova canzone viene spiegato sui leggii. Tesi, antitesi, sintesi: è un principio universale, dai tempi di Plotino, ma non ai tempi di Zuckerberg. Così, davvero, c’è qualcosa insieme di sorprendente, e forse d’inquietante, in questo passaggio dalla società della conversazione alla società della condivisione, e dunque dell’omologazione violenta, quando invece la cosa più bella della libertà, che è sempre differenza (la felicità non sta forse nella fierezza di sentirsi necessari perché unici?), è proprio quella di misurarsi con la materia instabile del pensiero altrui, e senza sputacchiarlo.