L'uomo e la lotta tra bene e male nell'indovinato Fidelio di Pappano
La Stagione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia prende il via ancora nel segno di Ludwig van Beethoven. Terminato il percorso tra le nove sinfonie, quest’anno il sipario si apre su Fidelio, l’unica opera della produzione beethoveniana (il compositore durante la sua vita proverà a scriverne altre ma desisterà sempre) “che mi è costata i più aspri dolori e per questo è anche la più cara”. Il Maestro di Bonn ne aveva quasi fatto una ragione di vita. Ben tre versioni differenti. Quattro dell’Ouverture iniziale. E’ il 1804. Appena due anni prima, il Testamento di Heilingenstadt aveva consegnato ai contemporanei un uomo in lotta con la sua sordità e, all’eternità, il titano in lotta contro un destino avverso. Sarà il Léonore ou l’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly a ispirare il musicista. Dopo varie riscritture vedrà la luce un Singspiel in due atti che ahimé non riscosse l’unanime successo del pubblico.
L’Accademia di Santa Cecilia e il suo direttore musicale Sir Pappano optano per una prima operistica in forma di concerto. Scelta indovinata perché l’opera si presta molto bene a questo tipo di esecuzione e ci preserva dall’invadenza di alcuni registi che con “regie moderne” stravolgono il senso dell’opera. L’aspetto oratoriale, le lunghe parti recitate che spezzano il normale flusso della storia, alcuni momenti di stasi alternati alle esplosioni delle pulsioni dei protagonisti, sono congeniali alla “forma di concerto”. Fidelio, inoltre, è un lavoro permeato dall’aspirazione sinfonica: l’orchestra è protagonista e le voci sono alle prese con ardue problematicità tecniche. Il virtuosismo vocale rappresenta una novità assoluta nel repertorio e indica una nuova via: quella di trattare le voci sinfonicamente. Un lavoro sperimentale straripante di inventiva. Fidelio rappresenta il primo germe di quell’“opera totale” che anni dopo folgorerà Richard Wagner, il quale riconoscerà a Beethoven il tentativo di crearsi un nuovo e potente linguaggio per ottenere sonorità espressive. Anche Wiliam Furtwängler sosteneva la doverosa necessità di eseguire l’opera almeno due volte in ogni stagione musicale.
Antonio Pappano fa ripartire la stagione italiana della “sua” orchestra (che quando non suona a Santa Cecilia gira il mondo, invitata nelle più importanti sale) proprio dall’opera. Il suo grande amore. Propone un viaggio arduo nei meandri di una vicenda dominata dalla lotta fra bene e male e dal potere che tiranneggia fuori e soprattutto dentro le persone. Non è semplicisticamente la storia d’amore coronata da un lieto fine né l’esaltazione fine a se stessa di un’eroina, seppur unica nel suo furore. Se si ascolta Fidelio fuori da partigianerie e riduzioni strumentali, ci si ritrova di fronte a un lavoro sul male di cui l’uomo è capace. Siamo messi di fronte a noi stessi. La musica accompagna, commenta, prelude e allude. E’ la musica di un Beethoven nel pieno delle domande sulla vita.
Il direttore musicale Antonio Pappano (immagine di Youtube)
Il finale della storia non è rappresentato soltanto dalla liberazione di Florestan e dal ricongiungimento con Leonore. Quando Leonore scioglie le catene, tutti i prigionieri cantano in coro “O Gott, Welch ein Augenblick” (Oh Dio, un tale momento), mentre l’oboe ripete celestiale la melodia da poco intonata, “Tu ci hai messo alla prova, tu non ci abbandoni. Giusto è il tuo giudizio”. Così il finale ricorda nello slancio, nella veemenza fonica l’ultimo movimento della Quinta sinfonia e nel dialogo tra solisti e coro, quell’Inno alla gioia che circa dieci anni dopo commuoverà Vienna e ancora oggi, a ogni esecuzione, noi tutti.