Il Figlio
Una notte Brigitte ha smesso di esistere, poi è precipitata qui
Brigitte adesso è stanca di essere una preda e ricomincia a guardarsi intorno avidamente, come chi ha qualcosa da desiderare. Ha quarantadue anni, il permesso di soggiorno e documenti italiani. Ha anche il passaporto, può andare in tutti i paesi riconosciuti dal governo italiano, tranne il suo. Il suo paese è il Congo, e lì Brigitte una notte ha perso tutto e ha ricevuto in cambio un lungo inferno: le hanno strappato di dosso la sua identità, gliel’hanno martoriata mentre martoriavano il suo corpo. Sono state compiute su di lei azioni che non hanno il diritto di essere dette. Hanno preso Brigitte una notte di ottobre del 2012. Cinque uomini, tre civili e due militari, sono entrati in casa e lei ha pensato: è finita. Ci portano via così, ci chiudono in un sacco e ci gettano nel fiume Congo ancora vivi. Perché ritenuti nemici del governo: Brigitte è infermiera, era benestante, aveva aperto una clinica, una donna sicura, allegra, vitale, si era rifiutata di fare iniezioni letali a sette ragazzi feriti durante una manifestazione.
“Ho cominciato a urlare aiuto aiuto aiuto. In casa, solo Gervais si è svegliato. I bambini hanno il sonno pesante. E i miei erano così piccoli. Lui invece in febbraio aveva compiuto quattordici anni. Gervais però è rimasto nella sua stanza. Non ha visto niente. Dio protegge i miei figli. Ha salvato Gervais. I due uomini in divisa mi hanno afferrato per un braccio. Hanno cominciato a trascinarmi verso la porta”. Da quel momento Brigitte ha smesso di esistere ed è arrivata vicinissima alla morte. Dopo alcuni mesi, per la pietà di un ufficiale alla cui moglie Brigitte aveva praticato un cesareo d’urgenza, è scappata dalla prigione, scalza, piena di sangue e di un dolore che basta a far impazzire per sempre un essere umano. Senza poter sapere nulla dei suoi quattro figli, rimasti senza una madre da un minuto all’altro, senza poter chiedere a nessuno se erano vivi, se qualcuno li aveva presi con sé o se erano stati gettati nel fiume dentro un sacco.
In queste condizioni, con i pensieri che colavano via dalla testa, Brigitte è precipitata nel nostro mondo, a Roma, alla Stazione Termini, senza capire più chi era. Una senzatetto di colore: le incrociamo per strada ogni giorno, a volte compriamo un panino, lasciamo pochi euro, oppure andiamo avanti, non facciamo caso a loro. Brigitte è arrivata ed era un fantasma, non camminava ma passava, si sdraiava per terra, si accovacciava davanti all’insegna di McDonald’s, non sentiva più nemmeno il dolore che la squarciava, né il freddo, la febbre, mangiava qualcosa dalla spazzatura. “E’ come se non fosse dov’è, né chi è”. Melania Mazzucco ha raccontato questa vita spezzata e gli ostinati tentativi di ricomporla in “Io sono con te, storia di Brigitte”, appena uscito per Einaudi.
E’ un libro sconvolgente, pieno di forza selvaggia e di precisione, in cui l’incontro fra due donne, una che ascolta la storia e l’altra che la racconta e nel frattempo la vive, si dispera, cerca i figli, urla al telefono, ha bisogno di cinque euro per una ricarica telefonica ma anche di un paio di mutande pulite, ha qualcosa di miracoloso e di assoluto. La storia complessa e irrisolta di Brigitte contiene tutte le storie di tutte le donne che incrociamo sulle panchine della stazione, o nei centri di accoglienza, o contro cui facciamo le barricate a Goro e a Gorino, ma è una storia che è soltanto sua: sua e dei suoi figli che la mattina dopo non hanno più trovato la madre, hanno finito le provviste dentro casa, hanno bussato a tutte le porte piangendo, si sono convinti che la mamma era morta, e poi hanno saputo che era in Europa e l’hanno odiata. “Perché ci hai abbandonati? Perché ci hai buttato via? Noi eravamo i tuoi figli”, le ha detto Gervais, il più grande. Chi sei? Chi sei? Cosa vuoi da noi?, gridavano le bambine più piccole piangendo al telefono.
Piangevano tutti, di commozione e di rabbia, dopo tutto il tempo e la volontà e i fallimenti spesi per arrivare a quella telefonata: con l’aiuto di Francesca, l’avvocato del Centro Astalli (il Servizio dei Gesuiti per i rifugiati) che all’inizio Brigitte rifiutava perché donna bianca (“le donne bianche sono tutte cattive”) e che poi è diventata la sua speranza, la sua àncora, sua sorella. Melania Mazzucco ha studiato le schede delle donne nei centri di accoglienza. “Vengono quasi tutte dall’Africa nera. Le donne del Maghreb non partirebbero mai da sole. Dall’Afghanistan, non accompagnata, non ne è arrivata nemmeno una. Le africane sono insegnanti, commercianti, giocatrici di pallacanestro, ma anche analfabete, contadine e schiave. Arrivate coi barconi a Lampedusa o in aereo, con documenti falsi e grazie a un passeur. Hanno perso i fidanzati, i mariti, gli amanti. Hanno perso i figli, hanno dovuto abbandonarli alle madri o a estranei, per anni – alcune per sempre. Hanno messo al mondo figli di stupratori o di compagni di viaggio che poi le hanno abbandonate. Si sono vendute, o sono state vendute. Sono sopravvissute a fatiche inimmaginabili, a violenze e torture raccapriccianti. Quelle schede comunicano una forza impressionante. Una vitalità indomabile”.
Sono le storie per cui i rifugiati non possono fornire prove (l’unico corpo del reato di cui dispongono è a volte il loro stesso corpo), sono le storie che costruiranno anche il nostro futuro. Come un romanzo di cui noi siamo i lettori. Come la storia vera di Brigitte, che adesso è anche nostra. Il primo Natale italiano dei suoi figli (i due maschi, le femmine sono ancora in Congo) è stato così brutto e povero da eliminare qualunque felicità del ricongiungimento. Scrive Melania Mazzucco: “Prima di lasciarci, ci abbracciamo, a lungo. Lei sussurra che è troppo duro, che non ce la fa a sopportarlo. Io penso che non può essere questo, il finale”. Non lo è, né per Brigitte né per noi che leggiamo, irrimediabilmente cambiati da questo libro.