(foto di Daniel R. Blume via Flickr)

In morte della famiglia

Roberto Volpi
La denatalità record dell’Italia di oggi affonda le radici nella forsennata campagna contro la grande tradizione famigliare. In nome dell’individualismo, ma non solo.

La drammaticità dei dati italiani delle nascite sta finalmente imponendosi. Speriamo che ora non tutto il problema  venga visto sotto la luce della mancanza di lavoro, delle insufficienti prospettive dei giovani, delle difficoltà materiali delle famiglie, dei costi di mantenimento dei figli e così via. Non perché non ci siano anche questi elementi nella patologicamente bassa natalità degli italiani, ma perché le nascite flettono tendenzialmente, salvo sobbalzi di scarsa entità e di ancor più mediocre durata, da oltre mezzo secolo a questa parte. Quando un fenomeno attraversa periodi così lunghi in cui tutte le situazioni economiche si succedono e accavallano, dalle migliori alle peggiori, senza però mai mutare la direzione di fondo, allora il segnale è chiaro: non sono quelli i fattori che più contano nel determinare quella direzione. Contano, è indubbio, ma non così tanto, non in modo così decisivo come contano altri fattori invece sin qui quasi dimenticati.

 

Certo, i dati delle nascite cui siamo di fronte sono impressionanti. Ma non lo sono da oggi, anche se oggi si è toccato un fondo che non pensavamo mai che sarebbe stato neppure sfiorato. Lo sono da trenta anni almeno. Oggi, anzi, vengono al pettine i dati sulle nascite che da tanti, troppi anni non fanno che diminuire senza che ci si fermi a interrogarci davvero sulle cause più profonde del fenomeno. Perché il primo fattore che grava sulle così poche nascite è, intanto, un fattore strutturale: sempre meno donne, a seguito di una denatalità che viene da tanto lontano, entrano nell’età riproduttiva. E ancor meno ne entreranno nei prossimi anni. Sempre meno donne nell’età di fare figli arriveranno sulla scena riproduttiva italiana: occorre saperlo e, se possibile, cominciare ad attrezzarci per cercare di compensare questa carenza strutturale del passato, del presente e che ci accompagnerà anche nel futuro.

 

Nei primi sei mesi del 2016 abbiamo perso quasi 15 mila nati rispetto ai primi sei mesi del 2015, ch’era già stato un anno poverissimo di nascite (486 mila). Continuando così si perderanno 30 mila nascite a fine anno, con un meno 6,2 per cento rispetto al 2015 che rappresenta una contrazione fortissima (16 anni a quel ritmo e non nasce più nessuno), senza forse toccare le 460 mila nascite (erano oltre un milione a metà degli anni Sessanta, con dieci milioni di abitanti in meno) che corrispondono a un tasso di natalità di 7,5 nascite annue ogni mille abitanti che è il più basso al mondo – un quarto più basso di quello europeo, che è a sua volta di gran lunga il più piccolo tra le aree geografiche del mondo. Dove vogliamo arrivare, se lo stesso Istat, in previsioni che sono appena del 2011, dava 50 mila nascite più di quelle che ci sono state nel 2015 e arriverà a darne addirittura 75 mila in più nel 2016 rispetto a quelle reali?

 

A dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, che la crisi della natalità italiana ha travalicato ogni più disastrosa aspettativa e sta travolgendo la stessa funzione che tiene in piedi ogni società: la funzione riproduttiva. Le donne di nazionalità italiana stanno scivolando a velocità supersonica a un tasso di fecondità di 1,2 figli in media per donna che può solo portare alla tomba della società. Né il contributo delle donne straniere è così decisivo, se riesce a malapena a tenerci sopra la linea di 1,3 figli per donna. Che però non è una linea di galleggiamento, ma di annegamento. Altro che farsi tante illusioni, magari sulla scorta dell’esperienza tedesca, dove il peso delle immigrate rende la situazione da quelle parti meno drammatica di quella italiana. Né si può far più conto su una diversa propensione alla natalità e alla fecondità delle ripartizioni territoriali italiane.

 

Nel Mezzogiorno, grande serbatoio di nascite fino a tutti gli anni Settanta, le cose sotto questo aspetto stanno come al nord, né più né meno. Anzi, le regioni dove il precipizio è stato più vertiginoso sono state proprio quelle del sud. La Sardegna ha una fecondità di un figlio in media per donna, record negativo assoluto. A Cagliari non si nasce neppure col forcipe; alla fine del 2016 è tanto se si raggiungono 5 nascite annue ogni mille abitanti, la metà esatta della stitica media europea. Una città che è già condannata. Tra le città di oltre 100 mila abitanti, a Ferrara, Genova, Cagliari, Venezia, Trieste, Livorno i morti sono assai più del doppio dei nati, cosicché quelle città sono a tutti gli effetti città morte. Non lo sanno, si crogiolano coi turisti, magari, ma hanno già perso la partita. Perdono abitanti, vitalità, forza, inventiva. Altre città sono avviate su quella china e ci arriveranno presto.

 

Tutta colpa del lavoro che manca, delle insufficienti prospettive? Negli ultimi tre anni c’è stato un miglioramento degli indici di produzione della ricchezza, reddito delle famiglie, occupazione, non grandi cose, ma comunque inoppugnabili: ma la natalità non solo non si è spostata in avanti di uno zero virgola qualcosa, ma ha avuto un autentico tracollo. Siamo riusciti nell’impresa di scendere da 9 a 7,5 nascite annue su mille abitanti in cinque anni, con una decrescita ch’è diventata crollo proprio negli ultimi tre anni, quelli della leggera ripresa economica.

 

E’ con queste evidenze che occorre fare i conti. Mettere un po’ di soldi su figli e famiglie, come si fa con l’ultima legge di Stabilità, non è male, è bene, è giusto. Se però si pensa che questo smuova qualcosa per davvero, che vada a toccare quello di cui c’è davvero bisogno, allora si sbaglia, e non di poco. E spiego perché. Perché mai crisi è stata più ideale-culturale di quella che ha investito istituti come il matrimonio e la famiglia e, di conseguenza, i figli e la natalità. Ci siamo illusi, e in molti continuano a farlo, che un po’ di lavoro e prospettive in più per i figli basterebbero a fare più figli. In intere aree del nostro nord ci sono livelli di lavoro e reddito e prospettive non dissimili da quelle di tante regioni più avanzate d’Europa, ma la natalità è anche lì al minimo livello possibile, anche in quelle aree non ci si sposa, non si costruiscono famiglie, non si mettono al mondo figli.

 

Le cose vanno forse un po’ meglio che altrove, ma è quel po’ che non distingue e neppure serve, perché il divario con ciò che necessita è invece un baratro. Siamo in un paese dove ci sono più abitanti tra 75 e 79 anni che non tra 0 e 4 anni. Questa è diventata l’Italia nel tempo che ci si trastullava con polemiche pretestuose non già contro il Fertility Day, cosa perfino scontata, ma contro il matrimonio e ancor più contro quella famiglia di coppia e figli che una narrazione irresponsabile ha descritto sempre e solo in termini negativi, al punto da imputare alle sue logiche il fenomeno che risponde al nome di femminicidio. L’Italia è uno dei paesi al mondo col più basso tasso di omicidi; non solo, ma questo tasso è in costante regresso, le donne rappresentavano e rappresentano il 30 per cento degli omicidi, e dunque sono molto meno numerose le donne uccise oggi di quelle che venivano uccise ieri.

 

Eppure mai come oggi la famiglia è stata messa sul banco degli accusati non solo per gli omicidi ma per le violenze e le molestie. Nessuno che abbia mai ricordato quel che le famiglie evitano, sul piano della criminalità. E’ quasi sembrato che se eliminassimo la famiglia elimineremmo tanti di quei fenomeni criminali e delittuosi.  E la stessa descrizione dei figli come fonte di sole preoccupazioni, centro problematico di tutta l’esistenza in comune? E il mestiere di genitori raccontato miticamente come il più difficile del mondo, quello che non si impara mai a fare, quello rispetto a quale mai saremo all’altezza?

 

Una forsennata, insensata banalizzazione, un travisamento ottuso di tutto ciò che era ed è famiglia, con anche le coppie civili e le unioni tra omosessuali giocate in questo senso, contro la famiglia tradizionale, ha prodotto il più grande distacco mai visto nella storia dell’umanità tra il destino dei singoli e il destino delle famiglie e della società. Se oggi si pensa quasi esclusivamente in termini di individualismo (da non criminalizzare, per carità, ma certo da cercare di armonizzare con logiche di coppia e famigliari), di se stessi, è anche perché la famiglia è stata incenerita dalle tante fascine che si sono accumulate sotto le sue fondamenta e alle quali non ci siamo peritati di appiccare il fuoco per fare un bel falò.

 

Il matrimonio religioso sta abbandonando mestamente la scena senza neppure combattere. L’ha tenuta per una vita, per una storia. E fintanto che l’ha tenuta si facevano i figli che necessitavano. C’erano 400 mila matrimoni religiosi, cinquant’anni fa, ce ne sono poco più di 100 mila oggi, a scendere. La chiesa ha reagito al tracollo come se i matrimoni in chiesa, visto che il divorzio non li risparmiava, avvenissero tra giovincelli un po’ pazzi e sprovveduti, che non si erano fatti bene i conti, che non avevano ragionato come si doveva, e allora giù con corsi su corsi di preparazione al matrimonio, e via col matrimonio raccontato anche religiosamente come l’esperienza più impegnativa, complessa, avvolgente, responsabilizzante, quella alla quale non si può neppure pensare di potersi avvicinare con un po’ di leggerezza, di sana felicità e impazienza, di improvvisazione. Improvvisazione, leggerezza, felicità, impazienza? Vogliamo scherzare? Qui è tutto un tragitto che dico problematico, un percorso di guerra, un gioco al massacro.

 

E si comincia subito, del resto. Vuoi un figlio? Ed ecco allora che devi prepararti al figlio che verrà già prima della gravidanza, con esami e attenzioni e cure e preparati, e una volta in gravidanza, beh, una volta in gravidanza gli esami non finiscono letteralmente mai, di tutti i tipi, anche i più astrusi e inutili, se non dannosi, e allora via a trovare problemi del tipo placenta con poco liquido, o con troppo, bambino con la testa grossa, o piccola (dipendono, questi valori, dalle capacità degli operatori, e da nient’altro, e sono quasi sempre delle formidabili fole che impauriscono migliaia di mamme ogni anno senza motivo – e senza sapere del resto che fare nel caso ci fosse di mezzo  uno di quei difetti). Una gravidanza a tal punto medicalizzata, quante gravidanze ulteriori scoraggia? A quante gravidanze fa rinunciare, da parte di donne che hanno un figlio e che pensano “ma chi me lo fa fare, ho già pure la mia bella età”.

 

L’età, appunto. Eccolo lì il busillis. Come vuoi fare dei figli se, oltre a non sposarsi, quando lo fai hai rispettivamente più di 32 anni la donna e più di 35 l’uomo? Un po’ te ne vuoi stare senza figli, è logico. Quando poi hai un figlio hai superato, tu donna, i 35. E allora ci vuole applicazione e volontà per mettersi, dopo che il primo figlio ha fatto i due anni, nel proposito di fare un altro figlio, il secondo, quando sei decisamente più vicina ai 40 che ai 30 anni. Ed è così che ci si ferma al primo, una volta su due. E sempre che si intenda volere un figlio. Perché di generazione in generazione cresce la proporzione delle donne che non hanno figli. Le donne nate nel 1970 concluderanno a breve la loro età feconda, il 23 per cento di loro rimarrà senza figli, la proporzione più alta di sempre. Per motivi di infecondità di coppia (crescente, dal momento che i progetti riproduttivi arrivano sempre più tardi) ma anche per rinuncia ai figli.

 

Crescono le donne e le coppie che non pensano di avere figli. Perché, pensano, che vantaggio c’è mai nei figli, in una società come questa? Dove gli uomini ammazzano le donne, i figli non vengono neppure vaccinati da genitori scemi e si infettano e infettano gli altri bambini, dove le mamme uccidono i figli, dove se stramazzi per terra non ti soccorrono, se ti aggrediscono scappano tutti, dove non c’è opera pubblica che non sia fermata dalla magistratura perché tanto amministratori e politici rubano tutti e resta solo da capire come? E insomma dove il migliore ha la rogna? Che vuoi mettere al mondo figli dove il migliore ha la rogna? Abbiamo descritto una società così, stiamo descrivendo una società così, giorno dopo giorno, certosinamente. E in più povera, non bastasse. Le file davanti alle mense della Caritas infittiscono, girano gli angoli, circondano i quartieri, la coda si ricongiunge alla testa, tanto crescono. La povertà assoluta, dicasi assoluta, riguarda milioni e milioni di italiani, gente che non può permettersi un pasto caldo ce n’è quanta ne vogliamo e anche di più. Poveri e cattivi. Mancano i brutti. Arriveranno, non c’è da temere.

 

Ed ecco, mi si dica se c’è posto per i figli, in una società così cantata. A una società così si risponde chiudendo la funzione riproduttiva, intanto. I figli? Si vedrà. Quando non ci sarà più tempo, temo. Ma allora non si può chiedere soltanto al governo di sbrogliare la matassa. Ognuno è chiamato a fare la sua parte, perché di mezzo c’è il domani e più ancora l’esistenza dell’Italia. Ma certo, qualcosa bisogna pur dire anche al governo. Si ha l’impressione, o almeno io ce l’ho, che non colga la gravita del problema, la gravità estrema, perché l’oggi decide del domani, demograficamente parlando, e l’oggi è già gravemente compromesso. Il tempo è in tutti i sensi decisivo. Bisogna accorciare i tempi. Si sono dilatati in modo insostenibile. E’ giusto, è sacrosanto andare all’università, laurearsi, prendere master, cercare lavori di soddisfazione e remunerativi.

 

Ma non si può fare coi tempi e coi ritmi di oggi, non se vogliamo provarci a risollevare le sorte mai così compromesse dell’Italia e degli italiani. Occorre concentrare i percorsi degli studi, superiori e universitari, e contemporaneamente avvicinarli al mondo del lavoro. Occorre che a 25 anni i giovani abbiano di che puntare sul futuro, non di che cominciare a guardare e pensare al futuro. Una ripresa vera della natalità non può che partire da qui, sul piano materiale, delle grandi riforme da fare. Occorre che i giovani siano nelle condizioni di mettersi in coppia, e se credono di sposarsi e fare famiglia quattro-cinque anni prima di quanto avviene oggi.

 

E per fare questo occorre anche rottamare, dicasi rottamare, verbo che il nostro presidente del consiglio ha coniugato per primo, e con merito, bisogna rottamare, dicevo, tutta intera la filosofia dell’anzianità che permea il lavoro. Aprire all’inventiva e al merito, togliere quell’autentico tradimento del domani rappresentato dai punteggi e i meccanismi che nel mondo del lavoro, specialmente pubblico, favoriscono i soliti noti, quelli che già sono stati favoriti. Sveltire, svecchiare e rottamare, e raccontare un’Italia più vera, più rispondente alla realtà di un grande paese che rischia non soltanto di diventare piccolo, ma letteralmente di sparire. La ricetta non è semplice, miracoli non se ne fanno. Ma se neppure ci si crede, nella possibilità di un miracolo al riguardo, beh, allora si sappia che la partita è bell’e persa.

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