Perché le élite tecnico-scientifiche sono necessarie al benessere e alla libertà
Per i liberali un’economia e una società aperte danno luogo a un benessere maggiore. Che sia così è provato da almeno tre secoli di esperimenti naturali: via via che le nazioni liberalizzavano le attività economiche, cioè abbattevano i protezionismi e lasciavano ai cittadini più autonomia, la ricchezza cresceva, la salute migliorava, così come la sicurezza e l’efficienza delle istituzioni. Anche le diseguaglianze e la corruzione dopo un po’ diminuivano. Di fatto, però, non è chiaro perché o come le libertà economiche, politiche, civili o lo stato di diritto favoriscono comportamenti virtuosi. Perché cioè nelle economie capitalistiche e nelle società liberali, poiché nascono libere, le persone migliorano la società, mentre nei sistemi totalitari e pianificati non accade lo stesso?
Agli inizi del Novecento, Vilfredo Pareto, partendo da una teoria economica liberista, pensò che nelle società capitaliste e industrializzate si stratificassero spontaneamente delle attività produttive o decisionali dove prevalevano gli individui più capaci che andavano a formare le élite, cioè chi davvero governava. Quindi l’idea di Pareto, ma anche di Gaetano Mosca, era che in democrazia di fatto non è il popolo che governa, ma le élite, che si creano e si estinguono nel tempo della storia. Per questo le democrazie liberali evolvono migliorando le condizioni umane. Anche se la teoria delle élite è stata contestata, in realtà diversi scienziati politici democratici, come Robert Dahl, Ralph Dahrendorf o Robert Putnam ne hanno proposto delle versioni recenti.
Da alcuni decenni gli psicologi dell’intelligenza constatano che nei paesi dove il Pil cresce di più, dove le istituzioni sono più efficienti, dove c’è meno corruzione e la giustizia funziona meglio, il quoziente intellettivo medio, quindi le capacità cognitive dei cittadini misurate attraverso i testi di intelligenza, è superiore. La scoperta è stata usata con intenti talvolta anche un po’ razzisti, ma qualcuno ha provato a capire in dettaglio in che modo i livelli di prestazioni cognitive influenzano le performance economiche, sociali e politiche in diversi paesi. Sono state così studiate quasi cento nazioni analizzando le prestazioni nei test scolastici internazionali (Pisa, Timss e Pirls), sia per quel che riguarda le prestazioni del 5 per cento top (cioè la frazione più intelligente o élite che produce brevetti, premi Nobel, prestigio culturale, etc), sia per quel che concerne la prestazione media della popolazione (le prestazioni del 50esimo percentile).
I risultati sono impressionanti e mostrano che i livelli di capacità cognitive raggiunti da un paese, e ottenuti coltivando soprattutto gli studi scientifici e tecnologici (quelli che influenzano l’innovazione scientifica, tecnologica, ingegneristica e matematica o Stem), correlano positivamente e significativamente con la libertà economica e il funzionamento della democrazia. Il dato più interessante è che la ricchezza e la crescita economica dipendono più dall’eccellenza scientifico-tecnica che dal livello di libertà economica. Ma, a sua volta, il grado di libertà economica e di competitività, una volta superata una soglia, modula il raggiungimento dell’eccellenza nelle capacità cognitive. La cosiddetta “smart fraction”, ovvero la sua produttività, è la l’élite scientifico-tecnica che manda avanti e indirizza il governo nelle economie fondate sul capitalismo cognitivo.
La libertà economica quindi segue, cronologicamente, la crescita del livello di eccellenza scientifico-tecnica. Nel senso che, come spiega lo psicologo Hans Riedermann nei suoi diversi articoli sulla natura del capitalismo cognitivo, l’eccellenza scientifico-tecnologica e la libertà economica dipendono dalla dimensione della frazione più intelligente o cognitivamente capace di un paese. Mentre i livelli medi di capacità cognitiva influenzano soprattutto la moralità e il senso civico in generale, nel senso che le nazioni con buoni livelli medi sono meno violente, meno corrotte, meno omofobe, valorizzano di più le donne, etc.
In che modo i livelli di capacità cognitive e le competenze tecnico-scientifiche creano la libertà economica, e, a quanto sembra, riescono persino ad abbassare la spesa pubblica? Sempre stando alle correlazioni, si osserva che questo avverrebbe perché migliorano l’efficienza delle istituzioni e la qualità della convivenza democratica. Insomma, questi studi convergono nel mostrare che non è la ricchezza, ma è l’istruzione, e specialmente quella scientifica e tecnica, che valorizza l’intelligenza e così promuove lo sviluppo di un senso democratico dell’intera società; ovvero favorisce lo stato di diritto e la libertà politica. Lo stato di diritto, in particolare, sarebbe automaticamente potenziato dall’apprezzamento del merito e delle capacità individuali, vale a dire dall’uso spontaneo nell’ambito delle comunità che coltivano le competenze tecnico-scientifiche di procedure, cioè di regole trasparenti, che non selezionino secondo privilegi contingenti o che appiattiscano le diversità. A sua volta, lo stato di diritto, sarebbe la variabile più efficace per garantire una selezione favorevole all’intelligenza e alla crescita della conoscenza.
Da decenni facciamo scappare i nostri migliori cervelli e non finanziamo in modi competitivi e liberi le migliori eccellenze. A qualcuno è pure venuta la balzana idea delle cattedre Natta, cioè di far rientrare qualche eccellenza tramite un concorso voluto dal governo, cioè con una procedura dirigistica e non libera. I politici che hanno in mano questo Paese non hanno mai capito cosa serve per ridare un’aspettativa di qualche futuro migliore a chi rimane in Italia. Hanno sterminato le élite e non sanno come ricrearle.
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