La fatwa della sinistra bianca
Dopo gli islamisti, sulla testa di Hirsi Ali arriva anche la taglia dei liberal. I benpensanti braccano i musulmani moderati. “Se fosse bassa e strabica, non avrebbe successo”.
E’ stato il quotidiano francese Le Figaro a delineare meglio la tragica condizione di duplice prigionia di queste personalità musulmane minacciate di morte: “Sono considerati traditori dai fondamentalisti e vivono in un inferno. Agli occhi degli islamisti, la loro libertà è un atto di tradimento. Sono soli contro l’islamismo che usa il terrorismo fisico dei kalashnikov ma anche contro un terrorismo intellettuale che li sottopone alle intimidazioni dei media. Visti come ‘traditori’ dalle loro comunità, sono accusati dalle élite occidentali di ‘stigmatizzare’”. E’ quest’ultima accusa a dominare l’incredibile rapporto reso noto questa settimana dal Southern Poverty Law Center, il centro studi creato in America per combattere il Ku Klux Klan e la galassia ariana (la vita del suo fondatore, Morris Dees, è stata resa popolare in tv da Line of Fire).
Il Southern Poverty Law Center ha stilato una lista di quindici “estremisti antislamici”. Fra questi c’è anche Ayaan Hirsi Ali, la dissidente islamica più famosa del mondo, e Maajid Nawaz, il musulmano britannico che ha fondato la Fondazione Quilliam per combattere il radicalismo e che è stato consulente di Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron. Come è possibile che in una lista nera di “estremisti antislamici” ci finiscano anche due rappresentanti dell’islam moderato, quello vero? E’ Nick Cohen sullo Spectator a spiegare perché: “Nel mondo orientalista liberal, l’unico ‘vero’ musulmano è un barbaro. Una batteria di insulti è lanciata su qualsiasi musulmano che dica il contrario. Essi sono ‘neoconservatori’, ‘informatori nativi’ e ‘sionisti’. In breve, una parte della sinistra occidentale ha adottato l’ideologia dei salafiti, dei khomeinisti e degli islamisti. Sostiene i loro codici di blasfemia”.
Il Wall Street Journal in un editoriale non firmato ieri ha attaccato il rapporto del Southern Poverty Law Center, dicendo che “come se gli attacchi dei fanatici islamisti violenti non fossero sufficienti, i riformatori musulmani devono ora anche schivare gli attacchi della sinistra americana”. Sulla rivista Tablet, Lee Harris fa notare che “il Southern Poverty Law Center sta mettendo una taglia sulle teste dei musulmani come Maajid Nawaz che si oppongono all’estremismo islamico. Questo documento è semplicemente un elenco dei nemici, del tipo dei fascisti, degli stalinisti, e degli altri totalitari”.
Cohen sullo Spectator parla della “prima fatwa della sinistra bianca”. In realtà non è affatto la prima. Timothy Garton Ash, opinion maker liberal, si è chiesto quanto il successo di Ayaan Hirsi Ali dipenda dalla sua bellezza e l’ha definita una “fondamentalista dell’illuminismo”, speculare agli islamisti che la vogliono morta. “Non manco di rispetto alla signorina Ali se faccio notare che se fosse bassa, tozza e strabica, le sue storie e le sue opinioni non sarebbero così seguite”, ha scritto Garton Ash niente meno che sulla New York Review of Books. Simili le critiche rivolte a Hirsi Ali da Ian Buruma, giornalista olandese trapiantato nell’Upper West Side a New York.
Sulla rivista tedesca Perlentaucher, il francese Pascal Bruckner ha difeso Hirsi Ali dalle critiche di Buruma e Garton Ash: “Non basta che Ayaan Hirsi Ali debba vivere come una reclusa, minacciata di morte dai fondamentalisti e circondata da guardie del corpo. Ora deve anche sopportare il ridicolo di questi grandi idealisti e filosofi pantofolai. In Olanda è stata persino chiamata nazista. Così i difensori della libertà sono raffigurati come fascisti, e i fanatici diventano vittime!”. Così Ian Buruma e Timothy Garton Ash mostrano “lo spirito degli inquisitori che vedevano delle streghe possedute dal male in ogni donna troppo esuberante per i loro gusti”.
Geert Mak, il più noto storico olandese, ha paragonato il film “Submission”, sceneggiato da Hirsi Ali per il regista Theo van Gogh e che gli costò la vita, all’“Ebreo eterno”, il film di propaganda nazista. Hirsi Ali stigmatizza i musulmani come Joseph Goebbels faceva con gli ebrei. L’“Index on Censorship”, la rivista fondata da Stephen Spender per difendere il diritto dei dissidenti sovietici a parlare liberamente, in un articolo a firma di Rohan Jayasekera, direttore associato del magazine, ha invece dipinto Hirsi Ali come una sciocca ragazza che aveva permesso a un uomo bianco (Van Gogh) di manipolarla in un “rapporto di lavoro di sfruttamento”.
Due anni fa, Hirsi Ali è stata cacciata dalla Brandeis University, una delle culle del liberalismo accademico americano che avrebbe dovuto onorarla con una laurea. Se non fosse che degli accademici di sinistra hanno fatto pressione sull’ateneo perché ritirasse il premio a Hirsi Ali. 85 su 350 professori professori dell’ateneo nel Massachusetts, uno degli stati più di sinistra d’America, erano troppo imbarazzati a ospitare una portavoce del Terzo mondo e dell’islam così famosa. Successe anche a un altro musulmano moderato, Salman Rushdie. Il governo canadese vietò temporaneamente le importazioni dei “Versi satanici”. Jack Straw, leader del Partito Laburista, propose di estendere la legge sulla blasfemia a tutte le religioni, dichiarando illegale ogni contenuto che “offendesse il sentimento religioso”. L’Accademia svedese, che assegna il Nobel per la letteratura, rilasciò una ridicola dichiarazione su Rushdie, assolutamente priva di spina dorsale. Così tre membri della Svenska Akademien – due romanzieri (Kerstin Ekman e Lars Gyllensten) e un poeta (Werner Aspenström) – si dimisero in segno di protesta perché la prestigiosa istituzione aveva fallito nel difendere lo scrittore minacciato di morte. Nel febbraio 1989 il Pen American Center guidato da Susan Sontag organizzò un convegno a sostegno di Rushdie. I più addussero scuse per “bucare” l’evento. Arthur Miller spiegò che il suo ebraismo avrebbe potuto giocare un ruolo controproducente. Gran parte della sinistra letteraria londinese si schierò con l’ayatollah Khomeini anziché con lo scrittore.
Germaine Greer diede a Rushdie di “egomaniaco” e lo chiamò “l’inglese dalla pelle scura”. Roald Dahl, autore di libri per ragazzi, chiamò Rushdie “pericoloso opportunista”. George Steiner, uno dei più rispettati critici culturali al mondo, tagliò corto: “Rushdie ha fatto in modo di creare un sacco di problemi”. E lo storico Hugh Trevor-Roper: “Mi chiedo come Rushdie stia in questi giorni sotto la protezione benevola del diritto britannico e della polizia britannica, con cui lui è stato così maleducato. Non troppo comodamente, spero… non avrei versato una lacrima se alcuni mussulmani britannici, deplorando i suoi modi, avessero cercato di migliorarli”. Il re dello spionaggio letterario, John Le Carré, definì Rushdie un “cretino”, mentre il romanziere John Berger sul Guardian invitò Rushdie a “chiedere ai propri editori di smettere di pubblicare ‘I versetti satanici’”.
In un editoriale sul New York Times, l’ex presidente americano Jimmy Carter definì il libro di Rushdie “un insulto ai musulmani”. E quando Susan Sontag e Gay Talese lessero in pubblico le pagine più controverse del romanzo in un locale di New York, solo una manciata di intellettuali si fece vedere. L’elenco di chi prese posizione a favore di Rushdie fu a dir poco breve, tanto che Leon Wieseltier, redattore letterario di New Republic, sctisse: “Si possono contare sul numero delle dita di una mano tremante. La stragrande maggioranza degli scrittori americani, quando gli è stato chiesto di parlare pubblicamente in supporto, ha scelto di non farlo. E le persone che non parlano oggi perché è pericoloso sono le stesse persone che hanno fatto carriera parlando quando non era pericoloso”. Spettacoli televisivi, come il MacNeil / Lehrer NewsHour e Nightline, si lamentarono che autori di primo piano si rifiutassero di discutere la “questione Rushdie”.
E’ successo di nuovo un anno fa con il caso dello scrittore algerino Kamel Daoud, l’autore del romanzo “Il caso Meursault” (premio Goncourt per il romanzo d’esordio). Daoud, oltre agli editti dei predicatori islamici nel suo paese, ha dovuto affrontare una condanna ben più sinuosa in Francia. Prima è uscito l’appello sul Monde di venti accademici di sinistra, in cui si accusa Daoud di una serie di reati ideologici, come “cliché orientalisti”, “essenzialismo”, “psicologizzazione”, “paternalismo colonialista”, che corrispondono, nel loro insieme, a un’accusa di “razzismo” e “islamofobia”.
Poi è uscito un libro dal titolo “Kamel Daoud la contre enquête”, a firma di Ahmed Bensaada e con la prefazione del giornalista di Mediapart, Jacques-Marie Bourget, che attacca “questi intellettuali del Nord Africa, che, da un effetto pendolo degno di Foucault, fanno gli ausiliari dei pensatori neo-conservatori francesi” che hanno bisogno del “buon negro”, “l’alibi nativo”. Daoud viene definito “martire di una fatwa in pelle di coniglio”, colpevole di ritrarre “tutti gli arabi e i musulmani nel mondo come frustrati, furfanti senza coraggio, esseri senza credenze, corrotti e acquistabili dal miglior offerente”. Daoud strumento del “pensiero neo colonialista”. Daoud “l’utile idiota del neocolonialismo di una cricca di intellettuali del Flore” (il caffè parigino).
“Il processo per islamofobia contro Kamel Daoud è degno dell’epoca staliniana”, ha scritto sul Figaro il politologo Laurent Bouvet, accusando il “complesso coloniale” e “il rifiuto della realtà” di certa gauche, mentre sul settimanale Le Point, Étienne Gernelle attacca “gli sciocchi della sinistra regressiva”. Gli attacchi al romanziere e giornalista algerino arrivano dalla London Review of Books, la bibbia delle élite liberal britanniche, che definisce Daoud “irresponsabile”.
Rafik Chekkat chiama Daoud “un informatore nativo”, sostiene che “la sua decisione di lasciare il giornalismo sarebbe l’unica buona notizia in mezzo a tutto questo rumore”. Si chiede Mediapart: “Daoud è islamofobo?”, mentre il suo patron, il procuratore delle lettere Edwy Plenel, chiede a Daoud di “scusarsi”. Su Libération, Olivier Roy, islamologo di riferimento per molti giornali anche in Italia, in un articolo dal titolo “Colonia e il tartufo femminista”, accusa Daoud di stigmatizzare i musulmani: “Il maschilismo e le molestie sessuali esistono in tutto il mondo, perché isolare questo fenomeno tra i musulmani, invece di combatterne tutte le forme? Solo perché sono musulmani”. E, sempre sul Monde, Jeanne Favret-Saada, orientalista di fama, accusa Daoud di “parlare come l’estrema destra europea”. Jocelyne Dakhlia, docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, scrive che Daoud ha riciclato “una visione culturalista della violenza sessuale”.
Il tic inquisitorio della sinistra verso l’islam moderato ha contagiato anche Gad Lerner, che ha attaccato sul suo blog Maryan Ismail Mohamed, portavoce della comunità somala di Milano e candidata con la lista di Giuseppe Sala, che ha lasciato il Partito democratico in polemica con la scelta di sostenere la candidatura di Sumaya Abdel Qader, musulmana velata eletta in Consiglio comunale. Gad Lerner si è rivolto così a Maryan: “Lanciare accuse gratuite di salafismo o addirittura di nazismo contraddice la realtà e riproduce in miniatura, dentro alle nostre comunità, la guerra in corso nei paesi d’origine. Favorire una simile tendenza sarebbe da irresponsabili”.
Stesso trattamento venne riservato dalla sinistra all’allora vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam, preso di mira in un appello apparso su Reset e firmato da duecento intellettuali, storici e scrittori: si va da Agostino Giovagnoli, storico alla Cattolica di Milano, ad Alfredo Canavero di Avvenire; da Guido Formigoni, studioso di cattolicesimo, al priore di Bose Enzo Bianchi, che confeziona un cristianesimo pret-à-porter. Fino ad Alberto Melloni, Paolo De Benedetti, il medievologo Franco Cardini e il filosofo della Cattolica di Milano Franco Riva, che scrive per le edizioni cattoliche Città Aperta.
Stesso trattamento riservato all’egiziana Mona Elthaway, femminista e critica del patriarcato islamico, attaccata così in un articolo sull’Huffington Post: “Libri delle ‘voci native’ - tra cui ‘Infedele’ di Ayaan Hirsi Ali, Azar Nafisi con ‘Leggere Lolita a Teheran’ e Irshad Mandji con ‘La fede senza paura’ - aiutano a ‘fabbricare il consenso’ per le guerre in Iraq e in Afghanistan”. Nafisi venne definita da un docente alla Columbia University “intellettuale venduta”, mentre Fouad Ajami, musulmano libanese e docente di studi mediorientali, fu chiamato su The Nation “informatore nativo”.
Maryam Namazie, altra intellettuale islamica di origini iraniane, è stata cacciata dall’Università di Warwick, in Inghilterra, perché la sua conferenza avrebbe potuto “alimentare l’islamofobia”. La stampa progressista, guidata dal Guardian, ha sostenuto l’esclusione di Namazie con queste argomentazioni: “Le sue parole non sono state vietate, lo stato non l’ha imbavagliata, e la capacità di Namazie di condividere le sue idee sarebbe stata sminuita se non appare di fronte agli studenti? Dopo tutto, lei può ancora twittare, e se non altro l’intera vicenda ha aumentato il suo pubblico”. Certo, e Rushdie è costato un occhio al contribuente inglese.
Gli studenti della Duke University hanno cercato di impedire di parlare a un’altra dissidente islamica, Asra Nomani, autrice del libro “Standing Alone”. In Francia, lo scrittore egiziano Hamed Abdel-Samad si è visto ritirare dal mercato il libro “Der Islamische Faschismus”, best-seller in Germania, perché secondo la casa editrice Piranha avrebbe portato “acqua al mulino dell’estrema destra”. Ai benpensanti liberal, l’islam moderato piace quando si traveste da Tariq Ramadan, da Ucoi e da imam in doppio petto. I dissidenti della mezzaluna li liquida invece come agenti provocatori della Cia. Questa fatwa della sinistra bianca e borghese non colpisce meno duro di quella degli islamisti.