Il Figlio
La spietatezza di madri e figlie, fra merendine e corse in avanti
Da bambina pensavo che la spietatezza fosse un’altra cosa. La spietatezza della matrigna di Hansel e Gretel, a cui non importava che i bambini morissero di fame nel bosco, la spietatezza della madre di una mia compagna di scuola che non le permetteva mai di andare alle feste di compleanno, perché alle feste di compleanno bisognava portare un regalo e lei non voleva comprarlo. Forse invece non poteva, ma io ero certa che fosse una madre spietata. La spietatezza erano i divieti, le punizioni, la spietatezza era dire troppe volte: no. La spietatezza era l’approfittarsi in modo cattivo di una fiducia totale: io sono tua figlia, ho bisogno dei tuoi sì, tendo le braccia, voglio carezze, chiedo una strada verso la felicità, la soddisfazione, e tu mi dici no. Sei spietata. La più spietata era sicuramente la madre di Anna, anche secondo le altre madri che la odiavano perché era molto bella ed elegante e davanti a scuola sorrideva come da un altro pianeta lassù. La madre costringeva Anna ad allenarsi a tennis ogni giorno e a fare i tornei tutti i fine settimana, la teneva sempre a dieta e le vietava di mangiare le merendine dicendo: fanno malissimo, fanno venire le cosce grosse e la pancia. Anna aveva le cosce un po’ grosse, ma non aveva la pancia.
Così Anna arrivava a casa nostra il pomeriggio presto, suonava alla porta, io correvo ad aprire, le urlavo: ciao Anna, già piena di eccitazione per quelle ore senza tornei di tennis, ma lei quasi non mi rispondeva, non mi guardava in faccia e andava però subito in cucina. Se in cucina c’era mia madre, Anna le diceva: ciao, ma senza guardarla. Se Anna incrociava mia padre, non diceva neanche ciao, andava avanti a testa bassa. Era concentrata, tesa, in tuta da ginnastica e con le cosce un po’ grosse. Apriva il frigorifero in cerca di Coca-Cola, sapeva in quale armadietto tenevamo le merendine, le patatine, i biscotti, frugava con una furia pochissimo trattenuta, sceglieva quello che le piaceva di più, ma in realtà prendeva quasi tutto, dolce e salato insieme, e finalmente si calmava, mi guardava e mi sorrideva: facciamo merenda? Io dicevo sempre sì, anche se erano le due e mezza del pomeriggio, avevo appena pranzato e non avevo fame, ma non avrei mai rovinato quel momento di esaltazione. Lì, al tavolo della cucina, con un pacco aperto di fagottini al cioccolato, la Coca- Cola nella bottiglia grande di plastica e la possibilità di mettere la maionese sui grissini, Anna sembrava felice.
Diventava spiritosa, ci divertivamo molto, intingevamo anche le patatine nella Coca Cola e io pensavo che stavo salvando Anna da una madre spietata, con le gonne strettissime e i capelli sempre luccicanti, le stavo dicendo: esiste un altro mondo, puoi averlo, e in realtà le dicevo solo: prendiamo anche i Buondì? Ma Anna non era affatto in fuga da sua madre, le confidava tutto, era orgogliosa di quelle gonne e di quei capelli, era felice di stare nel mondo dei tornei di tennis. Era certa che sua madre avesse ragione nel vietarle le merendine, e considerava quelle di casa mia uno strappo entusiasmante, ma non una possibilità reale: anzi credo che in fondo casa mia non le piacesse, non le piacessero i miei genitori, perché lei stava crescendo, e crescendo aderiva sempre di più a sua madre, anche nelle cosce che diventavano più magre. Sono passati molti anni e Anna vieta con la stessa convinzione, e con il sostegno costante della madre, le merendine a sua figlia, che ha le cosce un po’ grosse, e la costringe a nuotare ogni giorno: io pensavo che fosse spietatezza, credevo di dover salvare la mia amica dalla matrigna di Hansel e Gretel, invece quella era la costruzione di una comunanza.
La spietatezza è un’altra cosa. La spietatezza non permette di restare, ma costringe sempre ad andare via. Quando si è spietati, non ci si volta indietro per molto tempo: si può correre solo in avanti, perché la testa è piena dei pensieri nuovi che hanno occupato tutto lo spazio in cui una volta stavano i pensieri vecchi. Tua madre ti chiama, ma tu non hai tempo di ascoltare quello che dice. Tua madre cerca di spiegarti come si vive, come ha vissuto lei, ma tu scrolli le spalle e corri avanti, anzi ti arrabbi perché ti sembra che voglia metterti in prigione, o che voglia accusarti. Tua madre dice: quando tornerai?, e tu vai a sistemare le tazze in cucina e non rispondi, lavi le tazze, le asciughi, le metti via, rispondi a cento messaggi ma non hai risposto a lei. La tensione di tutte le fibre del corpo è rivolta ad altro, a un’altra vita, ad altre persone che invece ascolti con gli occhi come carta assorbente: così una figlia cresce e scopre di avere una spietatezza che rivolge verso sua madre perché tutta l’energia la spinge altrove, la vita chiama da un’altra parte e la prospettiva è totalmente diversa, anzi la madre adesso la infastidisce perché mentre tutto cambiava lei è rimasta identica, solo più fragile, meno potente di quando sembrava spietata, forse anche lei ha un fuoco che brucia dentro ma è un altro fuoco e adesso per quel fuoco non c’è spazio, brucerà da solo.
La figlia sta correndo e ha addosso tutta l’eccitazione che arriva dal credere di cominciare e finire con se stessa, la madre non corre più verso il futuro e anzi ama il presente non appena comincia a diventare passato, sta ferma e tende le braccia con una fiducia da bambina, ma le braccia sono cariche della vita accumulata. Ferire quella fiducia adesso è talmente facile, e farlo dà un gusto amaro. Fa parte di un assetto di guerra, di un’accelerazione che ha bisogno di lasciare indietro i pensieri che adesso sembrano sfocati, e però quest’accelerazione non è infinita. Un giorno la corsa rallenta, la guerra scivola via e si dissolve almeno per un po’, ci siede di nuovo in cucina, con un pacco di merendine e la Coca-Cola grande. Si ride insieme, spietate, ripensando a quanto è sempre stata insopportabile la madre di Anna.