"Il Giudizio universale" della Cappella Sistina

Leggere la Bibbia in classe salverà l'ora di religione e la nostra identità

Matteo Righetto

Dal 1984 in poi, ha creato più minus habentes l’ora di religione che intere annate di Amici. E’ dall’Accordo di Villa Madama, infatti, che tale disciplina e la sua negazione si sono trasformate in una sorta di Ortro, il mostruoso cane bicefalo fratello di Chimera, di Cerbero e dell’Idra.

Dal 1984 in poi, ha creato più minus habentes l’ora di religione che intere annate di Amici. E’ dall’Accordo di Villa Madama, infatti, che tale disciplina e la sua negazione si sono trasformate in una sorta di Ortro, il mostruoso cane bicefalo fratello di Chimera, di Cerbero e dell’Idra. Da una parte gli studenti che, tra uno sbadiglio e l’altro, scelgono di avvalersi dell’insegnamento della religione finendo il più delle volte per svaccarsi parlando dei ggiovani, dei problemi dei ggiovani, guardando film che parlano ai ggiovani. Cultura? Zero.

 

Dall’altra, un numero sempre più alto di studenti che non si avvalgono dell’insegnamento, preferendogli di fatto un cazzeggio collettivo istituzionalizzato dentro e fuori la scuola. In entrambi i casi: un lassismo scolastico privo di ogni valore formativo. Possibile, mi chiedo, che non si voglia finalmente ripensare tale disciplina rendendola obbligatoria e curricolare, focalizzandone i contenuti su letture ed esegesi di Antico e Nuovo Testamento? Ritengo infatti, e lo dico da intellettuale laico, che soltanto questo tipo di approccio didattico (né confessionale né devozionale, ma eminentemente culturale) potrebbe salvare l’ora di religione, nonché rivelarsi come uno degli interventi educativi interdisciplinari fondamentali dai quali far ripartire un risveglio identitario della nostra società. A tale proposito sarebbe troppo facile pensare agli intrecci indissolubili che nei secoli si sono venuti a creare nella nostra civiltà tra religione, filosofia e arte (fino alle contemporanee arti visive e performative), e mi limito quindi a riferirmi brevemente solo sul rapporto parentale tra Bibbia e letteratura.

 

Si può davvero credere che milioni di giovani studenti delle scuole e delle facoltà umanistiche occidentali comprendano e apprezzino gran parte della letteratura occidentale senza possedere adeguate conoscenze dell’Antico e del Nuovo Testamento? Essi sono il “grande codice” delle nostre letterature, l’universo entro cui i nostri canoni letterari hanno operato e stanno tuttora operando. E a parlare di tale “grande codice” fu il poeta e pittore inglese William Blake (1757-1827) il quale scrisse esattamente: The Old and New Testaments are the Great Code of Art. E chiaramente non si tratta di un codice esclusivamente anglosassone, ma universale. Anche Harold Bloom, gigante della critica letteraria americana, sostiene che la Bibbia, prima di ogni altra cosa, racconta delle storie e che la Genesi e l’Esodo (con l’Iliade e l’Odissea), fissano i parametri della forza letteraria ovvero del sublime, e che dopo di loro, secondo questi criteri, noi tutti giudichiamo Dante, Chaucer, Milton, Goethe, Byron, Rimbaud, Cervantes, Shakespeare, Tolstoj e Proust. Si pensi ad esempio ad Absalom, Absalom di Faulkner. O all’utilizzo di Giona e Acab fatto in Moby Dick.

 

E che dire del mondo dei patriarchi nella tetralogia che Thomas Mann ha dedicato a Giuseppe? Credo che nessun Racine esisterebbe senza Ester e Atalia. Non ci sarebbe neppure Kafka senza le tavole della Legge. Gli echi biblici sono indispensabili al Faust di Goethe. La moglie di Lot compare nella poesia medioevale inglese ma anche in Blake e in Joyce. Sansone e Mosè occupano ruoli notevoli nel romanticism francese di Hugo e De Vigny. Esisterebbe Proust senza Sodoma e Gomorra? E Steinbeck? E che dire della prosa di Cormac McCarthy, che col suo incedere epico di ascendenza biblica sembra una voce proveniente dall’Antico Testamento? Insomma. Tutta la poesia occidentale, il nostro teatro e la nostra narrativa non sarebbero riconoscibili se omettessimo la continua presenza della Bibbia.

 

E questo è il punto dirimente. No quindi all’ora di religione con le sembianze di Ortro, sì invece all’ora di lettura della Bibbia in classe e all’esegesi biblica nelle aule universitarie di lettere e filosofia. A tale proposito voglio citare le parole di Jacob Taubes, eminente filosofo ebreo, il quale nell’introduzione alla sua opera La teologia politica di San Paolo (Adelphi, 1997) scrisse: “Ritengo una vera catastrofe che i miei studenti crescano nella più assoluta ignoranza della Bibbia. Mi è stata consegnata una tesi su Benjamin in cui il 20 per cento dei riferimenti era sbagliato, e si trattava proprio dei riferimenti biblici. Lo studente è arrivato col suo lavoro finito, l’ho scorso velocemente e gli ho detto: “Mi dia retta, legga la Bibbia!”. Con la finezza del benjaminita lui mi ha chiesto: “In che traduzione?”. E io: “Per lei vanno bene tutte!”.

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