L'amicizia è anche conversare circondati da “Sahara di posacenere”
Tanta parte d’ogni amicizia oscilla tra questi versi di Dante (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento/e messi in un vasel, ch’ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio”) e quelli di Cardarelli (“Qualcosa ci è sempre rimasto, /amaro vanto, /di non ceduto ai nostri abbandoni, /qualcosa ci è sempre mancato”). Ed è proprio nell’alternarsi e sovrapporsi di queste dimensioni, gioia e incomunicabilità, comunione, riposo e rimpianto che Mario Fortunato legge e racconta in “Noi Tre” (Bompiani, 178 pp., 17 euro) la sua amicizia con Pier Vittorio Tondelli e Filippo Betto – rievocando gli anni con gli altri due romanzieri – immune dalle “dalle tentazioni della sociologia… dal rischio di dimenticare che coloro i quali affidarono alla scrittura il senso della propria esperienza sono creature fragili e complicate non tanto a causa della realtà che li circonda, quanto per quella a cui loro stessi danno luogo attraverso la lingua”.
Ripercorriamo con lui le notti a conversare circondati da “Sahara di posacenere”, i bar e le discoteche, gli scherzi e l’emozione per i propri debutti letterari, i viaggi, gli amori e l’insinuarsi sempre più pervasivo dell’Aids nel mondo omosessuale, che aggiunge nuovi stigma sociali e interiori. Un mondo di miti letterari che costituiscono al tempo stesso uno sprone, un conforto e rappresentano pure un tribunale privato (“la nostra santissima trinità era composta da Christopher Isherwood, Wystan Auden e Stephen Spender”). In un modo o nell’altro, l’autore si interroga continuamente sulla morte (“Ci girava intorno, come se fosse contemporaneamente l’insetto incapace di resistere al ragno e la tela che ne indica il destino”) e Dio (“mi chiese se, anche io, come lui, sentissi che nella scrittura si celebrava, sia pure in maniera incerta, una forma di nostalgia del sacro. Risposi di sì: chiunque abbia a che fare con la letteratura, aggiunsi, ne avverte il riflesso”).
Un libro molto bello, dove le parole sono così pulite, pacate e intense perché, al pari di certi ciottoli o legni, si percepisce che sono state levigate a lungo da un fiume interiore. Vi si trovano stilettate alle piccinerie della critica letteraria (“forse a causa della sua latente inclinazione poliziesca, tende alla casistica, cioè a sfornare etichette) e finestre sulle fatiche e le manie della scrittura (“Ogni scrittore vive in uno stato di incertezza permanente, intervallato da qualche sprazzo di panico: quando sta per pubblicare un libro, il secondo prende di norma il sopravvento. E’ allora che si eccede nell’uso del telefono”). Ma anche laddove si sorride degli amici, è un modo per coglierne i tratti più intimi e profondi (“Filippo era uno consumatore di barbiturici come altri possono militare in un partito politico o in un gruppo religioso, e cioè con quel tipo di accanimento che presto o tardi si converte nel suo opposto… l’insonnia lo avrebbe raggiunto ovunque, non parliamo dell’inquietudine”).
L’ambizione di fare di queste pagine “un’ode e un epitaffio, vagando incerte fra la gioia e la malinconia, simili a quei sogni che, per il loro contenuto indecifrabile, a sorpresa possono scatenare il pianto oppure il riso”, è riuscita appieno. E, proprio perché vi si racconta il viaggio di tre scrittori, due dei quali scomparsi dolorosamente troppo presto, vi si trova tanto peso tributato a due realtà non letterarie né verbali, le azioni, con cui magari si reagisce alla morte della persona amata da un amico (“non usò parole, ma gesti, e quel suo sguardo discreto, che non ho mai smesso di avere caro”) e il silenzio, negativo o positivo che sia, quello che afferma qualcosa e quello che si schermisce e nasconde (“a pensarci bene, il meglio è ciò che non diciamo, quel che passa in silenzio nella vita”). Solo chi non scrive e non legge potrebbe stupirsene davvero, dal momento che proprio “la scrittura rappresenta il più potente antidoto contro la convinzione che a ogni domanda corrisponda una risposta”.