Liberi di essere ricchi
Deirdre McCloskey, 74 anni, è Distinguished Professor di Economia, Storia e Inglese al College of Liberal Arts & Science dell’Università dell’Illinois a Chicago. Economista americana laureata a Harvard, ha svolto quasi tutta la carriera accademica a fianco di Milton Friedman e Gary Baker alla scuola di Chicago. Ma all’epoca era un uomo e si chiamava Donald. Pubblichiamo il suo intervento alla cerimonia di premiazione all’ottava cena annuale dell’Istituto Bruno Leoni avvenuta martedì 8 novembre a Milano. Ogni anno, dal 2008, l’Istituto assegna il Premio Bruno Leoni, dedicato al filosofo, giurista e politologo italiano dal quale il think tank prende il nome. Il premio è conferito a figure di rilievo che hanno fornito un contributo essenziale a diffondere le idee della libertà individuale, del mercato e della libera concorrenza.
Se volessimo stilare un elenco parziale dei pessimismi ansiogeni saliti alla ribalta nel corso dei secoli, potremmo iniziare da Thomas Malthus che, come scrive Anthony Waterman, “nel suo primo Saggio (1798) si concentrò sulla scarsità di terra. E così cominciò il secolare passaggio dall’‘economia politica’, la scienza ottimistica della ricchezza, all’‘economia’, la scienza pessimistica della scarsità”. Malthus temeva che i lavoratori sarebbero proliferati e Ricardo temeva che i proprietari terrieri divorassero il prodotto nazionale. Marx temeva, o si augurava, a seconda di come si considera il materialismo storico, che i proprietari del capitale facessero almeno il loro bravo tentativo di divorarlo. Mill temeva, o si augurava, a seconda di come si considera la frenesia della vita moderna, che lo stato stazionario fosse dietro l’angolo.
Poi gli economisti, molti di sinistra ma anche qualcuno di destra, in rapida successione dal 1880 a oggi – nello stesso periodo in cui l’Età dell’Innovazione stava facendo crescere costantemente i salari – cominciarono a preoccuparsi, per non citare che alcune delle ragioni per cui il “capitalismo” avrebbe dovuto indurre al pessimismo, di: avidità, alienazione, contaminazione razziale, insufficiente potere contrattuale dei lavoratori, lavoro delle donne, cattivo gusto nel consumo dei lavoratori, immigrazione di popoli meno civili, monopolio, disoccupazione, cicli economici, rendimenti crescenti, esternalità, sottoconsumo, concorrenza monopolistica, separazione della proprietà dal controllo, assenza di pianificazione, stagnazione post-bellica, effetti di moltiplicazione (o spillover) degli investimenti, crescita non equilibrata, mercati del lavoro duali, insufficienza di capitale (William Easterly lo chiama “fondamentalismo del capitale”), irrazionalità dei contadini, imperfezione del mercato dei capitali, scelta pubblica, mercati mancanti, asimmetria informativa, sfruttamento del terzo mondo, pubblicità, cattura del regolatore, free riding, trappole di basso livello, quelle di medio livello, dipendenza dal percorso, assenza di competitività, consumismo, esternalità del consumo, irrazionalità, sconto iperbolico, “troppo grande per fallire”, degrado ambientale, remunerazione troppo bassa del lavoro di cura, remunerazioni eccessive dei dirigenti industriali, rallentamento della crescita e altro ancora.
E’ possibile ricollegare le ultime voci della lista, nonché alcune delle prime, resuscitate da Piketty o Krugman, ciascuna con un premio Nobel per l’economia. Non farò i nomi degli uomini (tutti maschi, in netto contrasto con l’approccio di Elinor Ostrom, Nobel 2009), ma posso rivelare la loro formula: primo, scoprire o riscoprire una condizione necessaria per la concorrenza perfetta o per un mondo perfetto; poi affermare senza dimostrarlo, ma con appropriate ornamentazioni matematiche, che la condizione potrebbe essere realizzata imperfettamente o il mondo potrebbe svilupparsi in modo non perfetto; a questo punto, si conclude retoricamente che il “capitalismo” è condannato a meno che gli esperti non intervengano con un uso garbato del monopolio della violenza dello Stato per attuare politiche antitrust contro i “malfattori ricchi sfondati” o sussidiare industrie in declino, o fornire aiuti allo sviluppo a governi “perfettamente onesti” o finanziamenti a industrie “che devono crescere” o per “dare una spintarella” ai consumatori che si comportano come bambini oppure ancora, come dice Piketty, per prelevare un’imposta mondiale su quel capitale che causa disuguaglianza.
Thomas Piketty (foto di Wikipedia)
Una caratteristica di questa strana storia della scoperta del difetto di fondo e delle proposte di correzione stataliste è che raramente il pensatore economico di turno sente la necessità di fornire la prova che la sua proposta di intervento dello Stato funzionerà come previsto, e quasi mai sente la necessità di fornire la prova che l’imperfezione presente prima dell’intervento sia grande abbastanza da ridurre di molto il rendimento complessivo dell’economia. Lo storico dell’economia J.H. Clapham fece questa osservazione nel 1922 quando i teorici, sulla base di uno o due diagrammi, proponevano che lo Stato sovvenzionasse industrie il cui rendimento era certamente destinato a crescere. Questi economisti non spiegavano come raggiungere le necessarie conoscenze o in quale misura il loro consiglio non quantitativo avrebbe potuto effettivamente aiutare un governo imperfetto ad avvicinarsi alla società perfetta. Il silenzio era scoraggiante, scrisse acutamente Clapham, per “chi studia non le categorie, ma le cose”.
E’ ancora così, novant’anni dopo. Egli rimproverava A. C. Pigou: studiando “l’Economia del benessere si scopre che in quasi mille pagine non c’è nemmeno un esempio di quali industrie vanno in quali scatole [cioè in quali categorie teoriche], benché molte argomentazioni comincino con ‘quando prevalgono condizioni di rendimenti decrescenti’ o ‘quando prevalgono condizioni di rendimenti crescenti’, come se chiunque sapesse che cosa vuol dire”. Fattosi ventriloquo del teorico, rispondeva lui stesso all’idea di “quelle scatole economiche vuote”, senza sostanza quantitativa, una risposta che abbiamo continuato a sentire, senza che la sua plausibilità aumentasse: “Se chi conosce i fatti non può intervenire in modo appropriato, noi [teorici che scopriamo gravi difetti nell’economia] ce ne rammaricheremo. Ma la nostra dottrina manterrà il suo valore logico e, se possiamo aggiungere, pedagogico. E poi, lo sapete, si adatta così bene a essere espressa in grafici ed equazioni!”.
(…) Viene il sospetto che il tipico esponente della sinistra – la maggior parte delle più gravi preoccupazioni, naturalmente, proviene da quella parte, benché in realtà questo fatto non appaia poi così “naturale” se consideriamo i grandi benefici del capitalismo per la classe operaia – parta dalla profonda convinzione che il capitalismo sia seriamente carente. La convinzione si acquisisce all’età di sedici anni quando il proto-sinistrorso scopre la povertà, ma non ha gli strumenti intellettuali per capirne la causa. Ho seguito questo percorso anch’io e perciò sono diventata per un breve periodo una socialista alla Joan Baez. Poi il “buon socialdemocratico” a vita, una volta diventato economista di professione, allo scopo di suffragare una convinzione ormai radicata, si guarda intorno alla ricerca di un indizio qualsiasi che gli permetta di concludere che, in un mondo immaginario, la sua convinzione corrisponde al vero, senza preoccuparsi di ragionare su numeri certi, ricavati dal nostro mondo reale. E’ l’utopismo della gente di sinistra di buon cuore che dice: “Sicuramente, questo mondo sciagurato, in cui alcuni sono più ricchi e più potenti di altri, può essere grandemente migliorato. Possiamo fare molto, molto meglio!”. L’utopismo sgorga dalla logica delle teorie degli stadi successivi, concepite nel XVIII secolo come strumento con il quale combattere la società tradizionale, come testimonia, tra altre opere minori, La ricchezza delle nazioni. Sicuramente la storia non è finita. Excelsior!
E’ vero, anche la destra può essere accusata di utopismo, quando asserisce senza prove, con le sue arie da adolescente, come fanno alcuni economisti “austriaci” di vecchio tipo o alcuni economisti della Scuola di Chicago che hanno perso il gusto di mettere rigorosamente alla prova le proprie convinzioni, che viviamo già nel migliore dei mondi possibili. Tuttavia, ammesso che ci sia parecchio da biasimare a destra e a manca per la diffusione nella teoria economica di un atteggiamento scientifico meramente filosofico e non quantitativo, il rifiuto della sinistra di quantificare il sistema nel suo complesso mi sembra di gran lunga più dominante e più pericoloso. Ho un amico marxista molto caro ed estremamente intelligente che mi dice: “Io odio i mercati!”. Al che io gli rispondo, “Ma Jack, a te piace cercare oggetti di antiquariato nei mercati”. “Non importa. Odio i mercati!”. I marxisti, in particolare, hanno temuto, di volta in volta, che il tipico operaio europeo si sarebbe impoverito – timore suffragato da ben poche prove concrete; poi – sempre sulla base di pochi elementi di fatto – che sarebbe caduto in preda dell’alienazione; poi che, nella tipica periferia del terzo mondo, il lavoratore sarebbe stato sfruttato, tesi della quale non avevano grandi evidenze. (…) Negli anni Sessanta noi giovani economisti e ingegneri sociali americani, innocenti come bambini, eravamo sicuri di poter raggiungere una perfezione prevedibile. Lo chiamavamo “fine tuning”. Ma fu un fallimento, come può non esserlo ogni tentativo di raggiungere la perfezione?
Nel 1999 il politologo John Mueller ha osservato che dovremmo piuttosto cercare l’“abbastanza buono” – il che richiederebbe qualche sensazione basata su fatti che non siano troppo lontani dall’ottimalità, come per esempio a Lake Wobegon, Minnesota, località immaginata da Garrison Keillor, dove, nel Negozio di Alimentari Abbastanza Buono di Ralph si legge il messaggio pubblicitario comicamente modesto e scandinavo («Se non lo trovi da Ralph, probabilmente non ti serve»). Mueller ritiene che il capitalismo e la democrazia così come esistono oggi, imperfettamente, in luoghi come l’Europa e dove vi sono i suoi discendenti nel mondo, sono “abbastanza buoni”. I “fallimenti” nella ricerca della perfezione, diciamo, nel comportamento del Congresso o nella distribuzione del reddito in senso ugualitario negli Stati Uniti, secondo Mueller, non sono probabilmente abbastanza grandi da pesare molto nel funzionamento del sistema di governo o dell’economia. Per Lake Wobegon vanno abbastanza bene. Viceversa, attraversare la città in auto per fare la spesa al Negozio della Perfezione Esatta, dove il personale è composto di teorici economici specializzati nel trovare fallimenti nell’economia senza misurarli, spesso porta a conseguenze di cui avremmo potuto fare a meno.
(…) Quando una ragazzina borghese realizza quanto possano essere povere le persone che vivono in quartieri remoti, desidera naturalmente aprire loro il suo borsellino, o meglio ancora il portafoglio di papà. E’ a quell’età – sedici anni o giù di lì – che formiamo le nostre identità politiche che, un po’ come le nostre fedeltà sportive alle squadre di calcio, raramente rivediamo di fronte a una successiva evidenza. Le nostre famiglie, dopotutto, sono piccole economie socialiste, con la mamma che fa da pianificatore centrale.
(…) Perché non dovremmo prendere gli alti redditi del professore, del pilota di linea e dell’erede della fortuna della L’Oréal e distribuirli a spazzini e addetti alle pulizie? La risposta è che gli introiti degli individui non sono soltanto una tassa arbitraria imposta sugli altri. Questo sarebbe vero nel caso di una disuguaglianza all’interno del piccolo universo socialista rappresentato dalla famiglia, con Cenerentola che, per pura cattiveria della matrigna, ottiene meno cibo delle sorellastre. I guadagni individuali, invece, rappresentano il sostegno di una divisione del lavoro estremamente complicata, anche se in gran parte non pianificata e spontanea, in cui ogni passo successivo è determinato dai differenziali: il profitto che si ricava dallo scambio o nel lavoro. Se i medici guadagnano dieci volte di più degli addetti alle pulizie, è come se il resto della società, che paga volontariamente dottori e addetti alle pulizie dicesse: “Se gli addetti alle pulizie potessero diventare dottori, guardando le cose nel lungo periodo, dovremmo spostarne di più verso la professione medica”.
Se riduciamo la Grande Società a una famiglia tassando i ricchi al limite estremo, distruggiamo questo tipo di segnali. In assenza di un segnale del valore attribuito dalle persone a ciascuna ora dei due servizi, gli individui ondeggerebbero tra la professione medica e i servizi di pulizia, e né l’una né gli altri verrebbero svolti nel modo migliore. La Grande Società diventa una società non specializzata come la famiglia e, se consiste di 315 milioni di persone, tende a diventare una società di individui tutti ugualmente miserevoli e perde i potenti benefici dovuti alla specializzazione e all’ingegnosità accumulata che sono trasmessi imparando un mestiere e da robot in costante miglioramento – è bene notare che tutti gli strumenti possono essere considerati alla stregua di robot – utilizzati nelle più diverse attività, dalle spara-chiodi ai computer che permettono a carpentieri e insegnanti di offrire case e istruzione sempre migliori.
La redistribuzione, benché attenui il senso di colpa borghese, non è stata il principale mezzo di sussistenza del povero. L’aritmetica sociale spiega il perché. Se tutti i profitti dell’economia americana fossero immediatamente consegnati ai lavoratori, questi ultimi (compresi alcuni “lavoratori” straordinariamente ben pagati, come i campioni sportivi, le star dello spettacolo e gli amministratori delegati delle grandi società) sarebbero subito più ricchi del 20 per cento circa. Ma solo per una volta. L’espropriazione non ammonta a un 20 per cento annuo per sempre, ma vale solo una volta, perché non si può espropriare la stessa persona anno dopo anno e aspettarsi che si ripresenti con la stessa somma pronta per essere espropriata di nuovo, e poi ancora e ancora. Un’espropriazione una tantum alza il reddito dei lavoratori del 20 per cento, dopo di che quel reddito torna al livello precedente. Nel migliore dei casi (ammesso che i profitti possano essere miracolosamente prelevati dallo Stato senza farli diminuire, e poi distribuiti da burocrati talmente santi da non avere la tentazione di approfittarne per sé o per i propri amici) continuerebbe ad aumentare al tasso di crescita precedente (supponendo, cosa del tutto innaturale e smentita dall’evidenza degli esperimenti comunisti).
(…) Le redistribuzioni una tantum per aiutare i poveri sono di due ordini di grandezza più piccole dell’Arricchimento del 2.900 per cento derivato dalla maggiore produttività a partire dai primi dell’Ottocento. (…) Se vogliamo migliorare la condizione dei comuni cittadini e dei poveri di un ammontare significativo, 2.900 per cento batte di gran lunga ogni volta un differenziale del 20 per cento. L’insistenza del presidente Mao sulla guerra di classe ha annullato tutti i vantaggi che la rivoluzione cinese aveva conquistato. Quando i suoi eredi nel 1978 si sono convertiti alla “modernizzazione socialista” hanno adottato (inavvertitamente) il modello dell’Età dell’Innovazione e in trent’anni hanno realizzato un aumento del reddito reale pro capite di un fattore 20 – non un semplice 20 per cento ma un 1.900 per cento. Il motto anti-ugualitario di Deng Xiaoping è stato: “Lasciamo che qualcuno diventi ricco per primo”. E’ il Patto del Borghese: “Voi conferite a me, innovatore borghese, la libertà e la dignità di tentare i miei progetti in un mercato di scambi volontari e me ne lasciate i profitti, se riesco a ottenerne, in un primo tempo, pur accettando, con riluttanza, che altri competano con me in un secondo tempo. In cambio, nel terzo tempo di questo nuovo dramma a somma positiva, il miglioramento borghese fornito da me (e da quei fastidiosi concorrenti, rovinosi per la qualità e i prezzi) farà ricchi voi”. E così è stato.