Come nasce l'anti politica
li avvenimenti e i fenomeni candidati al ruolo di concause nella crisi politica italiana del 1992-’93 sono molteplici. La lista può esser suddivisa in almeno tre capitoli. Il primo è quello delle ragioni che maturano prevalentemente al di là delle Alpi: l’approfondirsi della costruzione europea, e i nuovi vincoli all’economia e alla finanza pubblica che ne derivano; la fine della Guerra fredda; la pressione crescente dovuta all’accelerazione dei processi di integrazione dell’economia globale; la crisi – o quanto meno la profonda trasformazione – del politico che comincia a farsi visibile in tutto il mondo occidentale. Un secondo capitolo contiene cause interne ai confini nazionali, ma esterne alla politica in senso stretto: il mutamento sociale e culturale degli anni Ottanta, appoggiato ovviamente a quello dei decenni precedenti; l’evoluzione del sistema mediatico; l’insoddisfazione crescente del mondo economico, finanziario e imprenditoriale per l’inefficienza e avidità della politica; la riforma del codice di procedura penale, coi suoi effetti sugli equilibri interni al potere giudiziario e sui rapporti fra la giustizia e i partiti.
Il terzo capitolo, infine, è quello dei motivi politico-istituzionali della crisi: l’inefficienza d’una costruzione costituzionale finalizzata a garantire più che a decidere; la conventio ad excludendum e il blocco del sistema; la perdita di rappresentatività dei partiti, abbinata alla loro sempre maggiore fame di risorse; i costi crescenti e sempre meno sopportabili dell’apparato pubblico, con l’esplosione del debito; la corruzione; il contributo che gli stessi partiti danno alla delegittimazione della politica, ad esempio sostenendo la necessità di riforme che poi non sono in grado di realizzare, o insistendo sulla questione morale; la presenza, infine, di attori politici che pensano di poter trarre beneficio da un’eventuale crisi, e quindi prima la evocano e poi, quando infine scoppia, la cavalcano.
Si potrebbe naturalmente discutere a lungo sul ruolo di questo o quel fenomeno specifico, o sul peso relativo dell’uno rispetto all’altro, alla ricerca di interpretazioni sempre più precise e raffinate. Nel suo complesso, tuttavia, la costellazione di fattori che ho appena riportato appare in grado di rendere gli eventi del 1992-’93 intellegibili. Almeno in una certa misura, poi, queste stesse premesse possono anche dar conto delle emozioni che attraversarono in quell’occasione lo spazio pubblico italiano. A cominciare dall’animosità nei confronti del ceto di governo, accusato non certo ingiustamente di essersi preoccupato di salvaguardare il proprio potere, i propri privilegi e le proprie risorse ben più che di preparare il paese ad affrontare le difficili sfide dell’epoca. Quelle emozioni tuttavia, e in particolare quell’ostilità, furono estremamente violente. E se la nostra costellazione può spiegarcene l’insorgere, è dubbio che possa spiegarcene fino in fondo l’intensità.
Anche perché l’ostilità per i politici e la politica avrebbe potuto esser temperata dalla consapevolezza che vi erano altri fattori, pesanti quanto quelli elencati sopra, che portavano verso conclusioni differenti. E che invece, nel corso della crisi del 1992-’93, furono sospinti decisamente in secondo piano. Innanzitutto, che quel ceto di governo, con tutti i suoi limiti, pure qualche merito lo aveva. In secondo luogo, che per decenni il paese lo aveva sostenuto in maniera ragionevolmente libera, e portava quindi una parte di responsabilità per gli errori compiuti. Infine, che il modo nel quale esso veniva spazzato via era assai discutibile, e potenzialmente capace di generare almeno altrettanti problemi quanti ne risolveva. Questo saggio è costruito dunque a partire dalla seguente convinzione: nella crisi italiana del 1992-’93 le emozioni contrarie alla politica non si svilupparono in maniera proporzionata alle cause e condizioni “oggettive” della crisi. Detto altrimenti, alla classe politica furono attribuite responsabilità maggiori di quelle, notevoli, che indiscutibilmente aveva. Le pagine che seguono sono dedicate al tentativo di spiegare questa sproporzione.
La guida che mi sono scelto in questo percorso è Elias Canetti. Per quattro ragioni. Canetti – che si considerava un poeta, certo non uno scienziato, ed era convinto che “la dimostrazione [fosse] la disgrazia ereditaria del pensiero” – conserva un approccio in larga misura letterario, e per giunta da letterato degli anni Trenta, ai fenomeni politici e sociali. Rifiuta schemi interpretativi troppo rigidi, perché “più d’uno crede che nelle scatole e nei cassetti di Aristotele le cose sembrino più chiare, mentre in realtà là dentro sono soltanto più morte”; non forza oltre un certo limite l’unicità dei fenomeni che porta ad esempio; spesso non scioglie le contraddizioni. Il suo libro d’una vita, Massa e potere, è esso stesso per tanti versi una massa (di casi storici, ipotesi, riflessioni), e la discrezione con la quale Canetti vi si aggira costituisce di per sé un rifiuto del potere – in questo caso del potere autoriale – in quanto irriducibile avversario della metamorfosi, creatore di ancoraggi fissi e incontrovertibili. Creatore di dimostrazioni, appunto. “La verità”, scrive, “è un mare di fili d’erba che si piegano al vento; vuol essere sentita come movimento, assorbita come respiro. E’ una roccia solo per chi non la sente e non la respira; quegli vi sbatterà sanguinosamente la testa”. Tutto ciò rende Canetti un autore complesso e faticoso, ma anche una guida ideale per un saggio ipotetico come questo.
La seconda ragione per la quale ho deciso di seguire Canetti è la sua attenzione per le componenti non soltanto pre-civili, ma per tanti versi pre-umane – animalesche – dei comportamenti politici e sociali. E’ stato giustamente detto che quello compiuto da Massa e potere è un esercizio non tanto di sociologia, quanto piuttosto di storia naturale della società. Il quadro delle possibili spiegazioni sociologiche, politologiche, economiche, giuridiche della crisi del 1992-’93, come detto, è sufficientemente chiaro nelle sue linee generali. Fermo restando, naturalmente, che c’è ancora tantissimo lavoro da fare per passare dall’abbozzo all’opera finita. Se vogliamo però cercar di comprendere le emozioni generate da – e a loro volta generatrici di – quella crisi, allora spostare l’attenzione sulle componenti dell’azione umana che più interessano a Canetti può esserci di una qualche utilità.
Le masse di cui tratta lo scrittore assomigliano da vicino a quelle dell’epoca di Tangentopoli: questa la terza ragione della scelta. Sia perché – pur avendo bisogno per condensarsi dell’azione di svariati “cristalli di massa”, come vedremo più avanti – possono formarsi e vivere in assenza d’una leadership. Sia perché sono strutturalmente – ontologicamente, potremmo dire – contrapposte al potere. In Canetti la massa e il potere sono i due modi alternativi che gli umani hanno per sfuggire alla morte: collettivistica, egualitaria, vitalistica, metamorfica la massa, nella quale si sopravvive tutti insieme; gerarchico, individualistico, egoistico, pietrificante il potere – in virtù del quale sarà soltanto il potente a sopravvivere, e a spese di tutti gli altri.
Proprio perché non ci propone una sociologia ma una storia naturale della società, infine, il mondo di Canetti è privo di colpe – così come, per capirci, lo sono le belve della savana. Questo è il quarto e ultimo motivo per cui l’ho scelto: a più di vent’anni di distanza dagli avvenimenti, il contributo d’uno studioso alla comprensione della crisi italiana del 1992-’93 non può consistere nell’accusare e scagionare, ma deve consistere – appunto – nel comprendere.
Tre riflessioni presentate e sviluppate in Massa e potere sono il nostro punto di partenza. La dicotomia fra masse aperte e masse chiuse, innanzitutto. In Canetti la massa, come notavo sopra, è in buona sostanza un’esperienza mistica: “uno stato di ebbrezza… un’intensificazione delle possibilità di esperienza… un accrescimento della persona, che, superate le proprie limitazioni, incontrava altre persone in una condizione analoga e con esse formava un’unità superiore” . La massa si costituisce con la “scarica”, il momento nel quale l’ancestrale timore umano d’esser toccati si capovolge nel desiderio di stare stretti e uniti tutti insieme, e le gerarchie e differenze sociali si dissolvono. Questa è la massa aperta, che per Canetti è la massa, quella che a lui interessa davvero: non si pone alcun limite, vuole crescere indefinitamente, “non riconosce case, né porte, né serrature”, ma è pure estremamente fragile – esiste infatti proprio finché cresce, e non appena smette di crescere, si disgrega.
Per stabilizzare la massa nel tempo, allora, la si chiude: le si danno dei confini anche fisici, la si disciplina, la si riaggrega nel tempo a intervalli regolari. La si istituzionalizza, insomma – Canetti non usa il termine, ma il senso del suo ragionamento è quello. “La massa”, così, “guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita”. Delle masse “virtuali” che si formano attraverso i mezzi di comunicazione – e che qui ci interessano in modo particolare – Canetti parla soltanto in maniera incidentale al termine del paragrafo dedicato alla massa aizzata. Da come le presenta – non istituzionalizzate, ma al contempo ragionevolmente stabili –, sembra farne una sorta di tertium genus fra masse aperte e masse chiuse: “Poiché non deve neppure radunarsi, tale forma di massa può anche evitare la propria disgregazione; il giornale, nella sua ripetizione quotidiana, si prende cura delle sue distrazioni”. Canetti considera inoltre questa massa mediatica la “forma più spregevole” di massa aizzata, poiché gode del linciaggio da distanza di sicurezza (“Il disgusto per l’uccisione collettiva è di recentissima data. Non bisogna sopravvalutarlo”), senza scomodarsi né assumersi alcuna responsabilità.
La spina del comando, in secondo luogo. Ogni ordine che un essere umano esegue ubbidendo a chi ha potere su di lui gli lascia, secondo Canetti, una spina conficcata dentro. Questa spina “penetra profondamente” e “dura inalterabile”: “nessun comando trova fine nella sua esecuzione, bensì è immagazzinato per sempre”. La spina è odiosa – “un duro cristallo di rancore” –, e l’impulso a sbarazzarsene è “una delle grandi fonti di energia psichica dell’uomo”: “Fin dalla primissima infanzia, spine di ogni tipo si accumulano nel bambino: esse si trasformeranno poi nei limiti e nelle costrizioni della sua vita successiva. Egli deve quindi cercare altre creature nelle quali trasferire le sue spine. La sua vita diviene un’unica avventura del liberarsi-di-esse, del doverle-perdere. Egli non sa perché compie questa o quella azione inesplicabile, perché contrae questo o quel vincolo apparentemente senza senso”.
Della spina ci si può liberare trasferendo su un sottoposto, anche a distanza di anni, il medesimo comando che si è ricevuto da un superiore. Poiché per Canetti la sentenza di morte è l’archetipo di tutti i comandi, il boia è allora “il più soddisfatto degli uomini, l’uomo più libero da spine”, poiché scarica immediatamente sul condannato la spina dell’ordine di giustiziarlo che ha ricevuto. Ma della spina ci si può liberare anche, seppur provvisoriamente, nella massa: quando vi partecipa, l’individuo “è, per così dire, sgattaiolato fuori di casa, lasciando in cantina tutte le spine che vi stanno ammassate”. E soprattutto, ci si può sbarazzare delle spine nella massa di capovolgimento (o rovesciamento, Canetti usa entrambe le parole). Giova citare per esteso:
La massa di capovolgimento viene costituita da molti, per lo scopo comune della liberazione dalle spine del comando cui ciascuno, da solo, non può sperare di sfuggire. Un gran numero di uomini si riuniscono insieme e insieme si volgono contro il gruppo di quegli altri in cui riconoscono coloro che per lungo tempo li hanno comandati… La classe inferiore che è insorta costituisce una massa ovunque congiunta, la classe superiore che si trova minacciata, circondata dalla maggioranza, forma una serie di mute piene d’angoscia e pronte alla fuga… Può anche darsi che non si tratti propriamente dei responsabili di questa o quella spina, ma, lo siano oppure no, essi vengono trattati come tali con il massimo rigore. Il capovolgimento che così ha luogo contro molte persone insieme riesce a eliminare anche le spine più dure… anche se l’insurrezione fallisce e gli uomini non riescono a emanciparsi dalle loro spine, essi conserveranno il ricordo del tempo in cui erano massa. Quando si trovavano in quella condizione erano, per lo meno, liberi da spine: perciò continueranno sempre ad anelarvi.
Al terzo ragionamento sviluppato in Massa e potere del quale avremo bisogno nelle prossime pagine già ho fatto cenno in precedenza: il rapporto fra potere e metamorfosi. Canetti dedica molte pagine alle capacità metamorfiche degli uomini, alle quali essi debbono “il meglio di ciò che sono”. E legge il potere in radicale contrapposizione con queste capacità. Innanzitutto, il potente non può né vuole mutare: “Il leone non deve trasformarsi per afferrare la sua preda: la afferra in quanto è un leone… Il potere nella sua intima essenza e al suo culmine sdegna le trasformazioni, basta a se stesso, vuole soltanto se stesso. In questa forma è sembrato agli uomini degno di ammirazione”. L’unica forma di trasformazione che si addice al potere, allora, è la simulazione – ossia la finzione a scopo d’inganno, che non è però un’autentica metamorfosi. Ma soprattutto, il potente vuol controllare le metamorfosi altrui. “Il potente conduce una battaglia ininterrotta contro la metamorfosi spontanea e incontrollata”: i sottoposti dovranno mutare quando viene loro ordinato, e non mutare quando viene loro vietato. Di più: una delle funzioni fondamentali del potere, secondo Canetti, è proprio quella di “stabilizzare” la natura umana, sconcertante e angosciosa perché – appunto – metamorfica.
Canetti parla poco di democrazia. Quel che sembrava interessargli era presentare la massa e il potere nelle loro forme pure, radicali, e perciò radicalmente contrapposte, ben più che esplorare i modi d’una loro possibile convivenza. In Massa e potere, d’altra parte, Canetti ha dedicato qualche pagina a considerare in quale modo le sue riflessioni sulla massa potessero applicarsi al sistema parlamentare. La democrazia parlamentare si compone a suo avviso di due masse in guerra l’una con l’altra – due anche in un sistema multipartitico: maggioranza e minoranza. Ma questo tipo di guerra può funzionare, e perpetuarsi, unicamente perché da essa è stata radicalmente esclusa la morte.
Canetti non ha invece esteso ai regimi democratici le riflessioni sulla spina del comando e sul rapporto fra potere e metamorfosi che ho presentato sopra. Con cautela, dovrò quindi provare a completare il suo ragionamento su questi punti. Mi pare ben possibile immaginare la democrazia come un sistema di rimozione periodica delle spine del comando. Alle elezioni, i potenti – i “lanciatori professionali di spine”, per così dire – si presentano davanti alla massa dei cittadini qualunque, che hanno finalmente l’occasione di rilanciare le proprie spine contro di loro con una sentenza di morte politica. Il voto, certo, nelle democrazie avanzate è solitario e segreto. Potremmo però estendergli le considerazioni di Massa e potere sulla comunione nella Chiesa cattolica: quella solitudine rimanda comunque a una massa astratta di esseri uguali, indifferenziati, appartenenti a una comunità unitaria.
Ora, le elezioni naturalmente non hanno soltanto la funzione che possiamo ascrivere loro estendendo le suggestioni di Canetti. Possiamo però ipotizzare in primo luogo che esse abbiano anche quella funzione. E in secondo luogo che quella funzione acquisti un’importanza tanto maggiore quanto più deperiscono gli altri contenuti del voto: condivisione razionale degli obiettivi perseguiti da un soggetto politico, ad esempio; tutela di interessi materiali; o espressione d’un senso di appartenenza. Allo stesso modo, possiamo ipotizzare che la democrazia sia pure un sistema di attenuazione dell’odio mortale che contrappone il potere alla metamorfosi. L’uomo di potere, se è un uomo di potere autentico, secondo Canetti non può modificare la propria natura. In democrazia può però essere sostituito. Alle metamorfosi continue degli umani, così, il potere democratico risponde con delle metamorfosi periodiche, incarnandosi di volta in volta in persone differenti.
Dal 1948 al 1992, per ovvie e note ragioni, in Italia il voto democratico non è stato in grado di svolgere la funzione che abbiamo descritto nel paragrafo precedente: consentire agli elettori di liberarsi, di tanto in tanto, delle spine del comando accumulatesi negli anni. Sono prevalse altre sue funzioni: soddisfare e rafforzare il senso d’appartenenza di masse chiuse, l’una contro l’altra armate; tutelare interessi materiali; esprimere consenso per un programma politico – o forse, ancora di più, dissenso per i programmi alternativi a quello per il quale si votava. Le spine, però, sono in gran parte rimaste dov’erano. Se si segue questo ragionamento fino in fondo, si deve giungere inoltre alla conclusione che gli elettori maggiormente trafitti di spine erano quelli dei partiti di governo, non quelli delle forze d’opposizione. Chi votava per i comunisti o il Movimento sociale sapeva che questo non gli sarebbe valso a danneggiare più di tanto i detentori del potere, ma poteva almeno togliersi una soddisfazione simbolica, attenuando il fastidio delle spine, se pure non scuotendosele di dosso. Chi dava invece il suffragio alla Democrazia cristiana e ai suoi alleati quel fastidio doveva tenerselo tutto.
Non solo. Si può ipotizzare che, quanto più gli elettori dei partiti di governo si sentivano “costretti” a votarli, tanto più il voto, oltre a non consentire loro di liberarsi delle vecchie spine, gliene conficcava pure addosso di nuove. Un’ipotesi che sembra particolarmente plausibile là dove la “costrizione” era di natura clientelare, poiché il clientelismo è una relazione di potere. Ma che potremmo avanzare anche per l’elettorato d’opinione anticomunista. Spingendo oltre la congettura, immaginiamo insomma che coloro i quali votavano per anticomunismo abbiano comunque maturato del rancore per quella che vivevano come una costrizione. E abbiano scaricato questo rancore da un lato sul Pci, facendosi ancora più anticomunisti. Dall’altro sui partiti anticomunisti, concependo nell’ombra un’ostilità cupa e crescente nei loro confronti. Che di tanto in tanto, per altro, alcuni di loro sfogavano nell’urna mettendo la croce sulla fiamma tricolore.
Nell’Italia postbellica il potere politico non è stato in grado di tenere sotto controllo le metamorfosi individuali e sociali. Non le ha sapute impedire – al massimo è riuscito forse a rallentarle un po’. Non le ha governate né indirizzate. E quest’incapacità è stata tanto più grave perché in quei decenni le metamorfosi si sono susseguite con un ritmo e hanno avuto una profondità che mai si erano visti nella storia. A tal punto da mettere seriamente in difficoltà anche sistemi politici ben più solidi dell’italiano. Soprattutto, il potere repubblicano non è riuscito a trasformare se stesso per adattarsi a quelle metamorfosi, come avrebbe dovuto fare un potere democratico quale l’ho definito sopra. Al massimo ha simulato la metamorfosi – ha fatto finta di mutare. In due maniere, mi sembra. Innanzitutto, avviando un processo di rotazione vorticosa delle figure al comando – ma muovendosi sempre all’interno dello stesso gruppo di potenti, e facendo sì che nessuno ne fosse escluso in via definitiva. Poi, la finzione è consistita nel tentativo di passare “dall’altra parte”, ossia di schierarsi con la massa di rovesciamento che iniziava a formarsi. Soprattutto a partire dai tardi anni Settanta, i detentori del potere hanno cominciato a rendersi conto dell’insostenibile accumularsi delle spine.
Mettersi dalla parte dei “ricevitori di spine” e criticare il potere – criticarne ad esempio l’inefficienza, o la disonestà, o l’incapacità di adeguarsi alle metamorfosi del paese – è stato dunque per pezzi importanti della classe politica anche un modo per lenire l’angoscia del comando, per costruirsi un’uscita di sicurezza nell’eventualità che i “minacciati di morte” si ribellassero. O meglio: per illudersi di aver costruito un’uscita di sicurezza. Non soltanto infatti i tentativi del potere di camuffarsi da massa erano, appunto, un camuffamento, non un’autentica metamorfosi. Ma, per giunta, era una simulazione che non poteva ingannare nessuno – così come non lo poteva neppure l’altra simulazione, quella della circolazione continua delle figure al comando.
Poiché lo scontro elettorale fra le masse chiuse dei partiti non consentiva loro di sbarazzarsi delle spine del comando, infine, per renderne sopportabile il fastidio gli italiani hanno fatto ricorso alle masse aperte – partecipando alle quali, non lo si dimentichi, l’individuo “sgattaiola […] fuori di casa, lasciando in cantina tutte le spine che vi stanno ammassate” – più di quanto in quegli anni non sia accaduto in altre democrazie. Così possiamo “spiegare” à la Canetti il movimentismo, l’attivismo, le pulsioni sovversive, il ruolo della piazza e l’intensità della violenza politica che hanno caratterizzato la democrazia italiana nel secondo dopoguerra.
L’odio per la politica e i politici che si sviluppa nella crisi italiana del 1992-’93, sproporzionato per intensità rispetto ai demeriti reali, pur considerevoli, di quel ceto dirigente, può dunque essere “spiegato” ipotizzando che in quell’occasione si sia formata una massa di rovesciamento. Trafitti da innumerevoli spine, impossibilitati per decenni a liberarsene con le elezioni, gli italiani colgono infine l’occasione per cacciarle tutte in gola a chi, secondo loro, ne era responsabile. Per le ragioni che ho illustrato sopra, ciò vale per gli elettori “moderati” dei partiti di governo più ancora che per gli altri: nessuno è gravato di spine altrettanto quanto loro. Questa “spiegazione”, d’altra parte, non ci dice nulla né sulle ragioni per le quali la massa di rovesciamento s’è formata proprio in quel momento, né sul modo in cui s’è sviluppata la crisi. Seguendo Canetti, credo che si possa tentare di dare qualche risposta anche a queste domande.
Perché allora, innanzitutto. Una prima ragione la possiamo cercare nelle riflessioni presentate nella pagina precedente. Lì si diceva che sbarazzarsi delle spine del comando non può esser considerata l’unica funzione del voto democratico, e si avanzava l’ipotesi che vi sia un rapporto di proporzionalità inversa fra quella e altre funzioni, come esprimere un’opinione, soddisfare il senso d’appartenenza, tutelare un interesse materiale: meno contano queste esigenze, più si cede all’urgenza di liberarsi delle spine, e viceversa. A questa premessa maggiore possiamo aggiungerne adesso una minore: in Italia, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, l’appartenenza, le opinioni, la difesa degli interessi hanno perduto in larga misura il proprio rilievo politico ed elettorale. Il senso d’appartenenza ai partiti era in ritirata da quasi un ventennio, ormai. Il sistema clientelare, che costruiva consenso grazie a meccanismi di tutela degli interessi materiali, era notevolmente indebolito dalle condizioni infelici della finanza pubblica. La crisi del sistema sovietico e la fine della Guerra fredda avevano reso la difesa dal comunismo non più necessaria.
E l’approfondirsi del processo d’integrazione europea dava da credere – erroneamente – che l’Italia fosse ormai governata da Bruxelles, e che, di conseguenza, quanto succedeva a Roma non avesse più grande importanza. Quale momento migliore, allora, per liberarsi infine dei propri “duri cristalli di rancore” scagliandoli addosso alla classe politica, senza dover temere di pagare su altri terreni il prezzo di quest’enorme soddisfazione? I risultati dei tre voti nazionali del 1991, 1992 e 1993 – referendum nel primo e terzo caso, elezioni politiche nel secondo – rafforzano l’ipotesi che ho appena presentato. Gli italiani paiono considerare i referendum come una sorta di spazio libero, nel quale ci si può sbarazzare delle spine in piena sicurezza – si può “dare “un sano calcio nel sedere” alla partitocrazia”, come ebbe a dire nel 1991 Mario Segni. Alle elezioni politiche, invece, si conservano assai più prudenti: nonostante il rancore, gli altri significati del voto hanno ancora un peso considerevole.
Un’altra “spiegazione” del perché la crisi italiana sia accaduta proprio allora possiamo infine avanzarla abbandonando per un istante Elias Canetti e aprendo una breve parentesi su un altro pensatore irregolare al quale Canetti viene talvolta accostato, René Girard. La riflessione di Girard sul comportamento umano è ricca e articolata, e in questa sede non è possibile presentarla nemmeno per sommi capi.
Fra le molte nozioni che scaturiscono dal suo ragionamento, a ogni modo, a noi può bastarne una: quella di crisi sacrificale. In Girard la crisi sacrificale è il momento nel quale le regole e istituzioni che garantiscono l’ordine in una determinata società collassano, e quella società precipita in uno stato di indifferenziazione. Ossia, smarrisce i criteri sulla cui base distingue i propri membri l’uno dall’altro, inserendoli in strutture e gerarchie dotate di senso e legittimità. In queste circostanze, la violenza umana che quelle strutture e gerarchie avevano tenuto sotto controllo rischia di esplodere nuovamente. E l’unico modo per scongiurarne l’esplosione è designare un capro espiatorio: una vittima che raccolga su di sé tutta la violenza, e dal cui sacrificio possa scaturire un nuovo ordine. Questo capro espiatorio può essere scelto per la sua “marginalità dall’esterno” – membri di minoranze etniche e religiose, pazzi, deformi e minorati –, ma pure per la sua “marginalità dall’interno”: i ricchi e i potenti. Secondo Girard, insomma, il potere è un tipico “segno vittimario”: “E’ abbastanza regolare che le folle si rivoltino contro quelli che hanno esercitato su di loro un ascendente eccezionale”.
Applicata alla situazione italiana, questa riflessione lascia ipotizzare l’esistenza di un collegamento causale diretto fra il 1989 e il 1992-’93. Ossia fra il senso di disorientamento, di fine d’un mondo, che è stato generato dalla conclusione della Guerra fredda e dal venir meno delle regole con le quali lo scontro bipolare aveva disciplinato la vita pubblica italiana fin dal 1947, da un lato; e l’identificazione della classe di governo come capro espiatorio da sacrificare per ristabilire l’ordine, dall’altro. Per essere un paese democratico occidentale dell’ultima decade del Ventesimo secolo, del resto, l’Italia di Tangentopoli è stata segnata da un tasso piuttosto elevato di violenza – che nel ragionamento di Girard, come detto, gioca un ruolo essenziale, se non altro come minaccia da scongiurare. Di violenza istituzionale e simbolica, dagli arresti alle manifestazioni di piazza. Ma pure di violenza vera e propria.
Si pensi ai numerosi episodi di suicidio – su uno dei quali in particolare tornerò fra breve. E soprattutto agli attentati di matrice mafiosa: l’assassinio di Falcone nel maggio e Borsellino nel luglio del 1992; le stragi di via dei Georgofili a Firenze e via Palestro a Milano, e le autobombe di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma fra la tarda primavera e l’estate del 1993. Ce n’è a sufficienza, insomma, perché si possa ipotizzare che l’Italia di quegli anni abbia vissuto una crisi espiatoria: timore diffuso che la convivenza degenerasse in violenza; desiderio di esorcizzare quell’eventualità identificando un capro espiatorio. Qui su questa strada non abbiamo modo di procedere oltre. Prima di tornare a Canetti, però, mi interessa introdurre un elemento ulteriore, sul quale avrò modo di tornare nell’epilogo: secondo Girard, le istituzioni giudiziarie nascono con l’obiettivo specifico di prevenire il circolo vizioso della vendetta – che, se si avviasse, potrebbe poi essere spezzato soltanto scaricando la violenza su un capro espiatorio.
Che cosa possiamo trarre da Canetti, quando dal “perché” della crisi italiana passiamo a interrogarci sul “come”? Tre suggestioni, mi pare. La massa aperta di Canetti, come abbiamo già visto, è un’esplosione di animalità umana: proteiforme, acefala, incontrollabile. E’ però catalizzata da “cristalli”: dei “piccoli e rigidi gruppi di uomini, ben distinti gli uni dagli altri e particolarmente durevoli… addestrati nella loro attività o nel loro modo di concepire le cose”, che per la loro “durezza” e costanza risaltano nella “singolare irrequietezza” della massa e non si disgregano con essa. Canetti, inoltre, dedica un intero capitolo di Massa e potere alle mute: nuclei umani che non hanno l’ampiezza e la densità della massa ma vorrebbero averle, e delle masse reali condividono la concentrazione ossessiva su una meta da raggiungere. La muta può essere di quattro tipi: di caccia, di guerra, del lamento, dell’accrescimento; e malgrado costituisca una modalità molto antica di azione collettiva, si riproduce anche in “forme più complesse di civiltà”, nelle quali può fungere appunto da cristallo di massa.
Nella crisi italiana del 1992-’93 hanno agito svariati cristalli, che possiamo suddividere in tre categorie. Nella prima e più importante troviamo i cristalli di natura giudiziaria. Nella seconda, quelli di natura mediatica. Nella terza, i cristalli di natura politica: Lega, Movimento sociale, Rete, movimento referendario e, con tutte le ambiguità del caso, Partito democratico della sinistra. Fino a che punto questi cristalli abbiano agito di conserva, o quanto invece non si siano mossi in direzioni differenti, catalizzando quindi non una massa, ma più masse diverse l’una dall’altra, è uno dei quesiti cruciali cui una storia della crisi italiana dovrà dare risposta. Per quel che riguarda il pool di Milano, inoltre, non mi pare affatto impossibile pensarlo non soltanto come un cristallo di massa, ma più precisamente come una muta di caccia. Sarebbe interessante ripercorrere in questa prospettiva sia la rappresentazione che del pool diedero allora i media, sia l’autorappresentazione degli stessi magistrati milanesi. La risposta che nel pieno della crisi il procuratore capo Borrelli diede a un intervistatore – “Quando la gente ci applaude, applaude se stessa” – lascia ritenere se non altro che la muta di caccia avesse chiara la consapevolezza del proprio ruolo quale cristallo di massa. Interpretare il rapporto fra magistratura e opinione pubblica ricorrendo all’idea canettiana del cristallo piuttosto che alla nozione di leadership, infine, può aiutarci a comprendere per quale ragione le avventure politiche dei magistrati – a partire da quella di Di Pietro – non abbiano avuto grande successo.
La seconda suggestione che possiamo trarre da Massa e potere sul “come” della crisi riguarda il comportamento del ceto politico sottoposto alle inchieste ed esposto alla riprovazione popolare. Canetti distingue fra “massa in fuga” e “panico”. Nel primo caso la fuga è unitaria, compatta e collettiva: “Si fugge insieme, perché così si fugge meglio. L’eccitazione è la stessa: l’energia degli uni accresce quella degli altri, gli uomini si spingono avanti nella stessa direzione”. Col panico, invece, la massa esplode in tanti frammenti quanti sono gli individui che ne fanno parte: “a partire dall’istante in cui si pensa solo a se stessi e si considerano i circostanti unicamente come ostacoli, il carattere della fuga di massa cambia completamente e si tramuta nel suo opposto: diviene panico, lotta di ogni singolo contro tutti gli altri che gli sbarrano la strada… Il pericolo che fino a quel momento esercitava un effetto animatore e unificatore, rende l’uno nemico dell’altro, e ciascuno cerca la salvezza unicamente per sé”. Il comportamento del ceto di governo durante la crisi del 1992-’93 può essere descritto ricorrendo alla categoria del panico ben più che a quella della massa in fuga. Questa constatazione di fondo, tuttavia, dev’essere corretta da almeno tre considerazioni ulteriori. In primo luogo, bisognerebbe capire se il panico è insorto fin da subito, o se almeno all’inizio non si sia formata piuttosto una massa in fuga. Poi, non possiamo dimenticare che vi fu all’epoca chi affermò con convinzione che la classe politica si sarebbe potuta salvare soltanto se si fosse conservata coesa e solidale – se si fosse conservata massa, appunto.
Penso soprattutto ai due discorsi parlamentari di Bettino Craxi del 3 luglio 1992 e 29 aprile 1993. Ma, sempre in questa seconda data, si veda anche l’intervento del presidente del gruppo democristiano Gerardo Bianco: “O si vince, onorevoli colleghi, tutti insieme, tutte le forze politiche, trovando tutti insieme le strade, o insieme si perde nel non saper restituire legittimità ai partiti e, quindi, alla politica”. Infine, il voto sull’autorizzazione a procedere a Craxi che si tenne proprio in quel 29 aprile ci mostra che il ceto parlamentare poteva ancora comportarsi da massa in fuga, ma soltanto quando i suoi singoli componenti erano coperti dall’anonimato. I politici costituivano una massa di dimensioni relativamente piccole, fatta di persone assai visibili e riconoscibili: questo impediva loro di comportarsi come una massa in fuga generica simile a quelle cui pensava Canetti, se non dietro lo schermo del voto segreto.
Per la terza e ultima suggestione dobbiamo tornare alle pagine che Canetti dedica alla spina del comando e alla massa di capovolgimento. In precedenza abbiamo trattato quello dei potenti come un insieme indifferenziato. Non è così, naturalmente: il potere è distribuito in maniera disomogenea e gerarchica, e chi ne gode in massimo grado soffre con altrettanta intensità dei suoi effetti collaterali. Il fenomeno della massa di rovesciamento, perciò, si presenta in forma particolarmente concentrata quando “il capovolgimento si compie a spese di un singolo capo, di un re”. Allo stesso modo, l’angoscia del comando “raggiunge l’apice in coloro che stanno più in alto… in colui che impartisce il comando di sua iniziativa, senza averlo ricevuto da altri, quasi generandolo da sé”. La Repubblica italiana, com’è ben noto, ha sempre avuto in grande sospetto la leadership individuale, e ha fatto di tutto per evitarne l’emergere e lo stabilizzarsi. E’ piuttosto evidente, d’altra parte, che se non altro in termini simbolici Bettino Craxi ha ricoperto negli anni Ottanta il ruolo del “monarca repubblicano”, ed è poi diventato l’obiettivo principale della massa di rovesciamento nel 1992-’93. La simmetria del capovolgimento in questo caso è palese – ed è ugualmente palese, per tornare a Girard, come all’occorrenza il carisma e il potere possano trasformarsi in segni vittimari. La parabola politica di Bettino Craxi è uno degli aspetti più studiati della vicenda italiana degli anni Ottanta e primi anni Novanta.
Cominciamo quindi a sapere almeno per sommi capi come sia avvenuto il rovesciamento, come e perché Craxi abbia consentito a questo processo di svolgersi – anzi: lo abbia quasi accompagnato, se non agevolato –, e come lo abbia poi denunciato nel momento in cui s’è trovato inchiodato al ruolo di capro espiatorio. Poiché però qui non ho modo di approfondire questo aspetto, debbo limitarmi a rinviare alla storiografia. Mi riservo soltanto un’ultima notazione. Nella lettera che inviò al presidente della Camera Napolitano prima di togliersi la vita, Sergio Moroni scrisse che la “ruota della fortuna” stava inchiodando i politici inquisiti al ruolo di “vittime sacrificali”. E concluse poi augurandosi che il suo gesto potesse “contribuire a una riflessione più seria e più giusta… servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna”. Nella sua disperazione, non senza nobiltà d’animo, Moroni si offriva come capro espiatorio, nella speranza di placare così la massa di capovolgimento. Ma quella, con ogni evidenza, considerò l’offerta insufficiente.
Come ogni crisi sacrificale, anche quella del 1992-’93 rappresenta non soltanto una fine, ma pure un inizio. E non può che aver condizionato, allora, la vicenda politica successiva. Mi sia consentito di introdurre soltanto due ordini di considerazioni. Il rapporto fra politica e magistratura, innanzitutto. Abbiamo visto quanta importanza Canetti attribuisca all’eliminazione della morte dallo scontro politico democratico, e di conseguenza all’inviolabilità dei parlamentari: “Un parlamento è solo un parlamento fin tanto che esclude i morti”. E abbiamo visto come Girard abbia fatto del sistema giudiziario e del meccanismo del capro espiatorio due modi alternativi di esorcizzare la violenza – il primo assai meno barbaro del secondo, e nato proprio per renderlo superfluo. Mi limito soltanto a formulare la domanda, lasciando la risposta ad altre occasioni: ma come poteva mai sperare l’Italia di costruire un sistema politico “normale”, nel momento in cui reinseriva la morte (civile, non fisica: ma la morte civile non è certo poca cosa – e per altro, come s’è visto, può portare a quella fisica) nel conflitto parlamentare, e affidava il compito di individuare e sacrificare un capro espiatorio all’istituzione che è nata storicamente proprio per rendere superfluo quel sacrificio?
Il secondo ordine di riflessioni riguarda la condizione nella quale s’è venuto a trovare lo spirito pubblico italiano all’indomani della crisi del 1992-’93 – e per tanti versi si trova ancora oggi. Una condizione, mi pare, d’insoddisfazione permanente, nella quale si sono intrecciati molti elementi differenti. Da parte degli elettori, la pretesa che la politica risolva problemi la cui soluzione è chiaramente al di là della sua portata – o che essa potrebbe magari risolvere, ma a un prezzo che gli elettori stessi non hanno la minima intenzione di pagare –; l’impazienza di fronte alla lentezza con la quale quei problemi vengono affrontati, e la tendenza quindi a cambiare di frequente le persone al comando; il rifiuto di dare alla politica gli strumenti indispensabili a sciogliere quei nodi – il tempo, appunto, ma pure le risorse economiche necessarie ad attrarre una classe dirigente dignitosa, e un minimo di protezione dalle invasioni di campo dei media e della magistratura.
Da parte del ceto politico, poi, l’assoluta incapacità di contrastare tutto questo, e anzi la scelta miope e autolesionistica di legittimare e amplificare l’insoddisfazione, facendone lo strumento principe della competizione elettorale. Sia chiaro: non sto affatto sostenendo che negli ultimi vent’anni l’insoddisfazione degli elettori per le mediocri performance dell’élite pubblica sia stata infondata o ingiustificata. Sto affermando però, da un lato, che una componente almeno di quell’insoddisfazione è dipesa dalle richieste eccessive che sono state fatte alla politica. Dall’altro, che l’insoddisfazione ha ostacolato l’azione di governo, contribuendo così – in una profezia che si autoavvera – a renderla insoddisfacente.
La massa aizzata, scrive Canetti, “si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile… Essa si propone di uccidere, e sa chi ucciderà”. L’omicidio serve alla massa “per liberarsi subitaneamente e per sempre della morte di tutti coloro che la compongono”. Ma “ciò che poi veramente le accade, è l’opposto… la massa si sente più che mai minacciata dalla morte”. E “Tanto più alta era la vittima, tanto più grande è l’angoscia”. A questo punto, la massa o si dissove, e ciascun suo componente si porta l’angoscia a casa propria, oppure va a cercarsi un’altra vittima. Questa seconda condizione si dà in particolare quando la massa aizzata è anche una massa di capovolgimento: “Una volta iniziato, il rovesciamento non si arresta più. Ognuno cerca di raggiungere una condizione in cui possa sbarazzarsi delle proprie spine, e ognuno ne ha molte… Tanto velocemente si esaurisce una massa aizzata, che si trova alla superficie, quanto lentamente si compie il rovesciamento dal basso, in molti scatti successivi”.
Bene: la mia ipotesi è che il profondo senso d’insoddisfazione che ha segnato la nostra vita pubblica a partire dal 1992-’93 sia derivato anche dall’angoscia che ha generato nei cittadini l’aver “decapitato” il ceto di governo – ossia, le vittime più alte che si possano trovare in una democrazia. Che l’insoddisfazione sia in qualche modo conseguenza, insomma, del bisogno necessariamente frustrato di raggiungere risultati commisurati alla gravità dell’atto compiuto. Come se gli italiani, convinti al fondo d’averla fatta grossa, siano destinati a non ritrovare mai più la tranquillità fin quando non avranno ottenuto in cambio qualcosa di altrettanto grosso – un nuovo miracolo economico, magari, o la sparizione del debito pubblico, o la conclamata maturità europea. L’irrequietudine dello spirito pubblico, inoltre, la scontentezza per i magri risultati ottenuti col rovesciamento del 1992-’93, hanno fatto sì che la spinta al capovolgimento non si sia esaurita allora, ma sia proseguita anche negli anni successivi.
Il formarsi d’una massa doppia, con la repubblica bipolare, ha consentito agli italiani di placare temporaneamente tanto l’insoddisfazione quanto la pulsione al rovesciamento. Questo può contribuire a “spiegare” sia l’animosità che ha caratterizzato lo scontro politico dal 1994 al 2011, sia la natura a tratti iperbolica di certe retoriche politiche. Continuando a seguire Canetti, ad esempio, si potrebbe sostenere che parte del successo di Berlusconi sia dipeso dalla sua capacità di convertire la massa aizzata di Tangentopoli in una massa di accrescimento, concentrata sulla produzione, sul consumo di beni materiali, e in generale sul successo economico. Se il ragionamento che ho svolto finora ha un minimo di senso, tuttavia, è evidente che il meccanismo della massa doppia era destinato prima o poi a incepparsi: perché vi si continuava ad aggirare il fantasma della morte civile, e perché non poteva tenere a bada a lungo un’insoddisfazione e una sete di capovolgimento troppo intense.
Nell’Italia del 2017, così, la massa di rovesciamento è ancora attiva. La massa berlusconiana di accrescimento s’è dissolta da tempo. E molta dell’energia generata da venticinque anni di capovolgimenti sembra essersi convertita in autocommiserazione. Ma pure su questo, in conclusione, sul passaggio dall’aggressione alla depressione, Canetti ha qualcosa da dirci: “La muta di caccia o la muta dei persecutori si purifica trasformandosi in muta del lamento. Gli uomini hanno vissuto come inseguitori, e sempre più come inseguitori essi continuano a vivere. Essi cercano la carne di altri, la straziano, e si nutrono del tormento delle creature deboli. Nei loro occhi si specchia lo sguardo straziante della vittima; l’ultimo grido, di cui si dilettano, si incide incancellabilmente nella loro anima. Forse la maggior parte di essi non si rende conto di nutrire insieme con il proprio corpo anche l’oscurità dentro di sé. Ma colpa e angoscia crescono inarrestabili in loro, senza lasciare speranza di redenzione. Così gli uomini si uniscono a chi muore per loro, e nel lamento su di lui si sentono essi stessi inseguiti e perseguitati. In quel momento, nonostante tutte le loro azioni passate, tutta la loro ferocia, essi si collocano dalla parte del dolore”.
Giovanni Orsina è nato a Roma nel 1967. E’ professore di Storia all’Università Luiss Carli. La versione completa di questo articolo sarà pubblicata nel fascicolo 39/2016 di “Ventunesimo secolo. Rivista di studi sulle transizioni”, in uscita a dicembre, nella sezione “Interventi e dibattiti”.