Eroe o soltanto “politicamente corretto”? Il j'accuse di Clint Eastwood
Un termine usato e abusato (vedi caso Saviano). Perché lo appiccichiamo addosso a persone considerate tali soltanto per via della loro aderenza al concetto di correttezza politica?
Roma. La parola eroe esiste, ma la stiamo usando con troppa facilità, appiccicandola addosso a persone considerate eroi soltanto per via della loro aderenza al concetto di correttezza politica: lo dice Clint Eastwood, ragionando “a contrario”, e parlando cioè del suo film su un eroe vero (“Sully: Miracle on the Hudson”, storia del pilota che nel 2009 salvò la vita a 155 persone con un atterraggio d’emergenza sull’Hudson). E il vero Sully (capitano Sullerberger), ospite d’onore al Torino Film Festival, spiega di essersi sentito, allora, “diviso in due. In pubblico ero l’eroe acclamato e richiesto ovunque, nell’ambiente di lavoro dovevo invece spiegare le mie decisioni, dimostrare che erano state le migliori. Non era una bella cosa e non sono stati giorni facili, ma noi dell’Aviazione abbiamo l’obbligo di imparare da ogni errore e da ogni incidente, anche piccolo, e questo per poter fare sempre meglio in futuro”. Ma Eastwood, come scrive il Mirror, sposta l’attenzione sul fenomeno dell’eroe percepito: chi è l’eroe, oggi, nel mondo “politicamente corretto dove tutti sembrano dover vincere un premio”?, chiede il regista. La parola eroe è “sopravvalutata”, messa lì a sproposito. “Non tutte le azioni che si intraprendono sono azioni eroiche, non tutti gli obiettivi raggiunti sono eroici… Tutto questo è ridicolo”, dice Tom Hanks, che nel film interpreta il comandante Sully. “Ormai si usa il termine ‘eroico’ come scorciatoia per dire ‘fatto’, ma l’eroismo è raro come i lampi durante la tempesta”.
Eastwood e Hanks parlano per loro, e per l’America che ha eletto l’antieroe-eroe cattivo dell’antipolitica Donald Trump, e però le loro parole si adattano all’uso traslato che del termine si fa sui social network e nei titoli di giornale italiani, dove “eroe” per antonomasia è, da dieci anni, Roberto Saviano, in qualità di icona di “Gomorra”, firmatario di cause giuste, volto da spettacolo Buono&Giusto e firma multifunzionale (anche su Twitter) di indignazione e preoccupazione per diritti minacciati e democrazie a rischio presunto (il physique e l’espressione aiutano). E nel 2010 il sociologo Alessandro Dal Lago, che aveva scritto un pamphlet sul tema per Manifestolibri (“Eroi di carta. Il caso ‘Gomorra’ e altre epopee”), era stato per mesi preso di mira per la sua lettura del “caso Saviano”, ai suoi occhi un esempio di “costruzione letteraria rassicurante” con funzione consolatoria in un panorama di contrapposizioni non più politico-ideologiche ma morali-moralistiche, con “proiezione del senso di colpa collettivo” che spinge a sentirsi con la coscienza a posto quando si sposa superficialmente la causa della “legalità un tanto al chilo”. Non a caso, i magistrati (in blocco) vengono spesso trasformati in icone mediatiche di “eroismo”. (Ma c’è stato un giorno in cui “eroe” è stato chiamato anche il poi ridimensionato Alexis Tsipras, in nome della lotta “contro l’Europa dei banchieri”).